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Make the World Smaller Again

È altamente probabile (ma non certo) che il megalomane in berretto rosso riesca a varcare la soglia della Casa Bianca il prossimo venti Gennaio, e lì insediarsi come il (quasi) nuovo presidente dei cinquanta Stati Uniti d’America. L’usato insicuro.

Giusto per non annoiarsi nell’attesa, il Pannocchia ha messo mano alla prossima nomina di ministri, ambasciatori e collaboratori, stilando una lista di amici, pregiudicati, finanziatori, manutengoli, scherani e parenti di un livello tale da mettere in difficoltà persino Satana, qualora dovessero presentarsi tutti insieme alla soglia dell’Inferno. 

Che una squadra di tal fatta possa davvero render grande l’America («Make America Great Again») suscita più d’un dubbio. A meno che il vero progetto della scompaginata compagine non sia quello di raggiungere l’obiettivo per opposta via: quella di render grande l’America non attraverso un programma di sviluppo in grado di innalzarla al di sopra delle altre nazioni del mondo, ma operando invece per abbassare ricchezze e prosperità di tutti gli altri Paesi, così da ritrovarsi automaticamente in cima alla classifica con poco o nessuno sforzo. 

«Make the World Smaller Again!». Rimpiccioliamo nuovamente il mondo!


Gli USA di oggi sono il prodotto di recenti sconfitte e di poche vittorie. 

All’inattesa disfatta in Vietnam (1975) seguì la fine dell’età industriale in Occidente (1990-2000), quindi gli attacchi alle torri gemelle e al Pentagono (2001): in assoluto il primo assalto da parte di forze straniere mai subito sul proprio territorio. Quindi il precipitoso ritiro dall’Afghanistan dopo vent’anni di inutili combattimenti (2021).

Tra le vittorie va in primo luogo annoverata la capacità mostrata nel superare la fine dell’età industriale in Occidente e riorientare velocemente le capacità produttive dal materiale all’immateriale. Non più automobili e frigoriferi, ma software e informatica. Lasciando le fatiche della fabbrica ai Paesi in via di sviluppo, dove l’età industriale era in quegli stessi anni agli albori.

L’effetto non voluto di una così vasta delocalizzazione fu l’inevitabile quanto indesiderata cessione di know-how alle nascenti fabbriche sudamericane, cinesi, indiane, africane che, nel giro di pochi decenni, divennero in grado di progettare da sé, prima imitandole, poi migliorandole, le produzioni che l’Occidente aveva tanto imprudentemente dismesso. 

L’Occidente ha in qualche misura conservato la propria superiorità finché ha saputo agire come software del mondo, aprendo nuove strade e lasciando ad altri il ruolo di tradurre in oggetti (hardware) le proprie innovative idee. Un predominio destinato tuttavia a traballare davanti alla crescita esponenziale che l’avvento del nuovo modo di produzione ha presto generato nelle economie di quei Paesi. 

La grande trovata dell’età industriale, sviluppatasi alla fine del Settecento in Gran Bretagna con l’invenzione della macchina a vapore, era stata quella di spezzettare i lavori complessi in tanti lavori semplici, così che qualsiasi persona al mondo – vecchi, donne e bambini inclusi – per quanto analfabeta e priva di qualsiasi formazione poteva essere immediatamente impiegata nella produzione. E mentre gli antichi processi lavorativi richiedevano decenni per formare nuovi artigiani che potessero incrementare la produzione, col metodo industriale era sufficiente aumentare il numero delle braccia, le fonti di energia, i macchinari e la quantità di materie prime. Per assicurarsi le quali furono combattute due guerre.

Cessata in Occidente a causa dell’evolversi delle tecnologie e della progressiva saturazione dei mercati, l’età industriale è di contro repentinamente esplosa in quella parte del pianeta un tempo definita Terzo Mondo. L’abbondanza di braccia e di materie prime, insieme all’esistenza di larghi mercati di consumo bisognosi di tutto, han fatto il resto. Così che oggi non c’è apparato elettronico che non si costruisca in Cina o in Corea del Sud, abbigliamento che non provenga da India, Egitto, Pakistan, Etiopia, Bangladesh, o autoveicoli prodotti al di fuori del Sudamerica, dell’Est Europa, dell’India, dell’Indocina.

Non è stata dunque l’America a indietreggiare, nell’ultimo ventennio, ma il resto del mondo ad avanzare. E di tanto. Se è vero che il primo competitor degli USA non è più oggi la primitiva Russia ma la neoimperiale Cina. 

E se il piano dei due paranoici in via di trasferimento a Washington, il Marziano e il Pannocchia, fosse proprio quello? Ricacciare in basso tutto il resto del mondo per poi illudere gli elettori d’aver riportato gli USA sul podio?

Alcuni segnali parrebbero confermarlo. Come la minaccia di dazi esorbitanti, tesi a ridimensionare le importazioni, l’auspicata quanto impossibile reindustrializzazione USA, la riduzione delle spese «inutili» (con la minaccia di uscire dalla NATO e dall’OMS), il respingimento oltre frontiera dell’immigrazione illegale, l’annunciato componimento con la Russia per meglio isolare la Cina...

Basterebbe un simile programma per arricchire gli Stati USA? 

No. 

Chi mai nel mondo comprerebbe dagli USA un’auto che finirebbe col costare il doppio o il quadruplo di una Fiat, una Jaguar, una Mercedes o un Land Rover made in India?  

E chi mai in USA farebbe a meno della lana britannica, o del cachemere asiatico per affrontare l’inverno con maglioni di cotone e pesanti giubbe di pelle?  

Può avere un senso, nel Terzo millennio, un mercato neoautarchico costruito sul modello mussoliniano, quando l’orzo e le ghiande avevano fantasiosamente sostituito il caffè, le nocciole il cioccolato, il cartone il cuoio: quell’acclamato «Cuoital» che tanti soldati uccise squagliandone gli stivali sulle nevi della steppa russa?

Nonostante ciò, pronti a svendere l’attuale benessere in cambio di un futuro malessere, i neofessi americani riempiono plaudenti le piazze dove il rossocappelluto latra, non meno di quei protofessi italiani che cent’anni fa si accalcavano per acclamare il duce in piazza Venezia, o degli ultrafessi germanici assiepati davanti al führer nel Zeppelinfeld di Norimberga.

Da sempre, ad annunciare i tempi di guerra son stati gli uomini di guerra, e il minaccioso bipresidente USA certamente lo è: propenso a menar le mani, piuttosto che a porgerle. 

Non meno pericoloso è l’elettrico Marziano che lo finanzia, lo ispira e lo sostiene. Libero come un qualunque Vannacci  di dire ciò che vuole, dove e quando vuole. In primo luogo tutto quel che il Pannocchia vorrebbe ragliare al mondo, ma che per dovere istituzionale non può.

Bullizzato da ragazzo, in una Pretoria dove i bianchi erano una sparuta minoranza e il regime di apartheid che teneva a bada i neri si avviava al termine, il Marziano pensò bene di lasciare il Sudafrica per il Canada appena prima dall’avvento al potere del nero Nelson Mandela (1992). 

Scarcerato dopo 27 anni di prigionia subiti per motivi politici, Mandela avrebbe da lì a poco posto fine all’apartheid, che escludeva i neri non solo dai fondamentali diritti, ma anche dalla possibilità di accedere ad un certo numero di strade, parchi, quartieri, scuole, spiagge, oltre che dal permesso non solo di sposare un bianco, ma persino di intrattenere tra le diverse etnie relazioni sentimentali o anche di semplice amicizia.  

Dal Canada, il Marziano si stabilì negli USA, prima in Ontario e poi in Pennsylvania, dove si laureò in Economia e in Fisica, maturando di pari passo con l’evolversi dell’allora nascente tecnologia informatica, dal Commodore 64 fino all’intelligenza artificiale. 

Promotore dell’auto elettrica ed infine concessionario dei lanci spaziali per conto di privati e della NASA, arricchitosi oltre misura tanto da poter foraggiare a suon di milioni la campagna elettorale del dittatore biondo, il Marziano ha serbato nel profondo del cuore il mai sopito odio razziale, che finalmente gli sarà liberamente concesso di proclamare e praticare. 

E se mai gli USA si ritrovassero costretti a dover affrontare la Cina, è altamente probabile che il campo di battaglia possa essere quell’Africa dove le materie prime abbondano, le fonti di energia sono ancora in gran parte da sfruttare, il mercato d’acquisto immenso, la popolazione in crescita. E l’età industriale appena agli inizi, sospinta dalla Cina e limitata al momento al settore tessile. Come nell’Inghilterra dei telai meccanici, prima del vapore. 

È lì che si gioca il futuro del mondo. E chi si dichiara pronto a colonizzare il Pianeta Rosso, perché mai dovrebbe lasciare ad altri la conquista del Continente Nero? 

È il Marziano l’uomo da tener sotto controllo. Anche perché i suoi 54 anni d’età non potranno non aver infine la meglio sui 79 del Caligola americano.  

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