La Storia narra di aziende fallite il giorno stesso della fondazione, così come i giornali dan triste notizia di neonati mai venuti alla luce. Ma ci parla anche di aziende con diversi secoli di vita alle spalle.
Restando in Italia, la Pontificia Fonderia Marinelli porta benissimo i suoi 985 anni, così come le Cantine Ricasoli i loro 960. O il Monte dei Paschi di Siena – la più longeva al mondo tra le banche – i suoi 553. Ma alcuni alberghi termali in Giappone, di anni possono vantarne ben 1.320. Portati benissimo.
Dopo questa doverosa premessa, la domanda successiva è: dureranno più a lungo Apple e Tesla, o (politicamente) un Donald Trump?
Nessuno può rispondere con assoluta certezza. Neppure noi che aleggiamo tra le nuvole.
Tuttavia, dovessimo scommetterci un euro e mezzo, lo punteremmo su Apple e Tesla, piuttosto che su Trump.
Aziende vissute mill’anni, come s’è visto, ancora ce ne stanno in giro. Uomini di quell’età, neppure nella Bibbia. Neanche Matusalemme: arruolatosi qui in Paradiso, tessera 20.764, alla matura età di 969 anni.
Nulla di cui meravigliasi, dunque, se l’assalto ai mercati mondiali lanciato dall’ignaro Pannocchia si è inevitabilmente schiantato contro la dura realtà dell’umano progresso. E non in pochi anni, ma in pochi giorni.
I soldi non obbediscono ai potenti. Son come i gatti: gli prepari la cuccia e loro vanno da un’altra parte. Lontano da chi vuol possederli, ma non sa come trattarli.
Quel che Trump ha faticosamente maturato nella sua rinfoltita quanto minuscola capocchia, è l’illusione di poter riportare in patria, bloccando ogni importazione, la produzione di tutto quanto occorre a una grande nazione per sopravvivere e prosperare.
Mission impossible!
Per due insuperabili motivi:
1. L’età industriale in USA è terminata nel 1990 (leggere Philip Roth). Si basava su un processo produttivo, nato in Gran Bretagna alla fine del Settecento, che sfruttava in modo intensivo le braccia di popolazioni allora in gran parte analfabete e ignoranti. Chiunque poteva essere addestrato in pochi minuti ad avvitare un bullone o a scartavetrare il legno; oggi, invece, son necessari anni di addestramento per manovrare i complessi macchinari che avvitano i bulloni e levigano il legno. Ad opera di personale specializzato che neppure può più essere soggetto a sfruttamento, perché il valore delle proprie competenze gli consentirebbe di trovare occupazione ovunque, stabilendo da sé il proprio compenso. Che varia da nazione a nazione.
Giustamente Apple ha calcolato che un telefono prodotto in patria, invece che in India o in Cina, non potrebbe esser venduto a meno di 30.000 dollari: che è poi il prezzo minimo di un orologio di qualità costruito in Svizzera, che i Cinesi riescono tuttavia a replicare con qualità assai simile per poi rivenderlo a 30 dollari;
2. Esistono prodotti che necessitano di materiali o di climi particolari. Non solo alcune qualità di terre rare, spesso monopolio di singole nazioni, ma persino un mango o una banana non si possono produrre dappertutto. O vi si rinuncia, o li si sostituisce con altri differenti prodotti, di qualità spesso inferiore ad un costo superiore.
La tanto vituperata globalizzazione è un processo irreversibile portatore di benessere e di pace. I sacrifici dell’età industriale in Occidente, migrati dapprima in Sudamerica e in Oriente ed oggi in marcia verso i più desolati Paesi dell’Africa, han certamente migliorato la qualità della vita delle popolazioni locali. L’Occidente, peraltro, liberatosi dalle fatiche della fabbrica, ha meglio potuto applicarsi nello studio, nella ricerca, nella progettazione.
È nata in tal modo una sorta di suddivisione tra Paesi «software» del mondo ed altri «hardware» del mondo: una diversa collocazione geografica di chi progetta e di chi realizza. Come accade in aziende ampiamente delocalizzate, come Apple.
Si tratta di una differenziazione solo apparentemente ingiusta, di fatto momentanea e in continua evoluzione: perché i produttori di oggi saranno i progettisti di domani. Come è dato osservare in una Cina dove l’età industriale è ormai prossima alla fine, e già oggi delocalizza in Etiopia alcune produzioni meno qualificate, come il tessile. Ormai avviata verso un nuovo ruolo di Paese software e non più hardware.
In questo principio di Millennio, il mondo non appare poi così dissimile dal modello prerinascimentale italiano, quando ugualmente vigeva una netta separazione tra i luoghi di ricerca e di studio (i monasteri) e di produzione (le campagne), poi evolutosi in età comunale grazie alla rinascita del commercio e – conseguentemente – al comparire di nuovi istituti (le università) dove poter sviluppare quelle discipline trascurate dagli istituti monastici.
Il risultato di quel lento faticoso tragitto fu la fine del Medioevo e il successivo fiorire del Rinascimento. Quello sì, vera età dell’oro. Per le arti, per la scienza, per la politica. E non ad opera di qualche Donald Trump del tempo, ma dei Machiavelli, dei Medici, dei Leonardo, dei Michelangelo, dei Raffaello...
E in quello – come in ogni altro momento in cui la Storia ha voluto accelerare il passo – a far da carburante son stati la pace e la libertà.
Il libero scambio ed il libero commercio, di merci come di idee, sono il sistema cardiocircolatorio del mondo. Strozzarne le arterie e le vene non significa far diventar più grande il cuore, assicurandogli più sangue a spese di altre parti del corpo ritenute meno importanti. Significa mandare in cancrena il pianeta. Cominciando da quelle regioni più periferiche, servite dai vasi capillari, per poi passare ad altri organi più necessari e vitali. Ed infine, ultimo ad arrestarsi – definitivamente – quel medesimo cuore.
Il cuore vive quando il sangue circola. Il mondo vive quando circolano le merci.
Non per caso le parole Earth ed Heart son così simili tra loro, anagramma l’una dell’altra.
Qualcuno lo ricordi a Donald Trump.
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