E mica per guadagnarsi un brandello di prima pagina su quei pochi giornali ancora rimasti, ma per «tutelare gli interessi dei cittadini»!
L’alternativa sarebbe costruire ferrovie e asfaltare le strade. Ma costa tanto, non ti manda in televisione, tocca faticare e neppure porta voti.
Meglio dar buca alle buche.
Ciò che colpisce nel suo discorso, tuttavia, non è tanto la protervia del ministro che non amministra, quanto l’impunita ignoranza che sottende il pubblico uso ed abuso del termine «cittadino», inteso come «popolazione».
Asservire il linguaggio all’interesse del momento è stata certo la più duratura invenzione del defunto cavalier Malpensa. Stufo d’esser chiamato «impresario», si inventò la variante «imprenditore», presto estesa a chiunque svolgesse una qualsiasi attività non alle dipendenze, dai gestori di discoteca ai titolari di bar e ristoranti, dagli esercenti al dettaglio ai piccoli e grandi industriali, dai liberi professionisti agli artigiani. Tutti «imprenditori»! Pronti dunque a votare uno come loro: un altro «imprenditore».
Una riforma presto estesa all’intero vocabolario: «premier», «primo ministro», «capo del governo» in luogo di «presidente del Consiglio dei ministri»; «governatore» per indicare il presidente del Consiglio regionale; «escort» per meglio nobilitare l’antico mestiere di molte delle fanciulle di cui amava circondarsi.
Perché mai, a sentire Salvini, uno sciopero dovrebbe danneggiare soltanto i «cittadini», e non invece chi cittadino non è e neppure ha intenzione di diventarlo? Dagli stranieri residenti o di passaggio, per motivi di lavoro o per turismo, fino al personale diplomatico di stanza in Italia?
È assai più facile che vi siano molti più «cittadini» tra gli scioperanti (la cittadinanza italiana, dopotutto, è un requisito imprescindibile per molte attività lavorative) che non tra gli «utenti», termine più preciso per indicare chi, oltre ai datori di lavoro, degli scioperi subisce un pur sopportabilissimo danno.
La parola «cittadino», nata nel Medioevo in Età Comunale e al tempo riservata ai soli abitanti attivi dei Comuni, sinonimo dunque di «borghesi», ha assunto un certo qual valore universale solo dopo la promulgazione della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino (1789) la quale, conseguentemente alla Rivoluzione, ha esteso ad ogni Francese tutti i diritti un tempo riservati ai soli abitanti delle città, abolendo nel contempo molti dei privilegi nobiliari esistenti.
La parola «cittadino» divenne ben presto d’uso comune, utilizzata per indicare chiunque si riconoscesse nel nuovo regime borghese, un po’ come «comrade» («camerata», o «compagno») in altri contesti politici.
Mai però, come negli ultimi anni in Italia, ha finito con l’assurgere a sinonimo di «popolazione».
Oggi non c’è partito o governo che non lavori «nell’interesse dei cittadini», o per il «benessere della cittadinanza». Come se strade, spiagge, taxi, alberghi, giornali, ferrovie non fossero in larga parte al servizio anche di chi cittadino non è, ma solo di passaggio.
È questione di sostanza, non soltanto di forma. Quando una nazione comincia a perdere anche la lingua, insieme ai confini, alle tradizioni, alla Storia, ai valori condivisi, al comune sentire, quella comunità è destinata a dissolversi.
E pazienza se lo facesse per confluire in una nazione ancora più grande e possente (il mai così lontano Stato Federale Europeo), ma guai se invece – come nei progetti dell’attuale governo – finisse col disciogliersi in tante piccole realtà regionali. Inconsistenti quanto diseguali, corrotte e non tutte capaci di camminare sulle proprie gambe.
Un tempo c’era la Televisione di Stato a difendere la lingua. O meglio, ad insegnarla: in una nazione ancora multidialettale e in larga parte analfabeta. Sugli schermi si parlava l’Italiano, in perfetta dizione, e trasmissioni come «Campanile Sera» mettevano a confronto le diverse realtà locali, nell’intento di comporne le storiche discrepanze, mentre «Non è mai troppo tardi» alfabetizzava anziani e stranieri e Mike Bongiorno diffondeva nozioni enciclopediche, anziché burle e banali giochi di parole. Vero servizio pubblico.
Diverso da quel servizio privato, a vantaggio di pochissimi, che si propone invece di diffondere falsità e ignoranza. E a larghe mani. Ben sapendo che se occorrono mille fessi per fare un furbo, sessanta milioni di fessi bastano ed avanzano per mantenere in (bella) vita gli altri sessantamila furbi. Quelli che non pagano le tasse, quelli che sfruttano i beni demaniali, quelli che godono di privilegi monopolistici, quelli che si nutrono di pubbliche prebende, quelli che vincono gli appalti ma non portano a termine i lavori, quelli che da ogni possibile palcoscenico – dalle piazze, dai giornali, dagli schermi, dal web – ogni giorno fanno il pieno di risate e di consensi prendendosi gioco dei fessi.
I quali, regolarmente, convinti come sono che si parli d’altri, tra un raglio e l’altro sonoramente applaudono.
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