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Servizietto pubblico

C’era una volta «la» Televisione. Con tanto di iniziale maiuscola e articolo determinativo femminile singolare. 

Singolare, perché singola: esisteva una sola Televisione, con un solo canale in bianco e nero. Neppure per tutto il giorno, ma solo alla sera. Unica eccezione: la «TV dei ragazzi», dalle 17:00 alle 19:30. Poi arrivava «Carosello», la sola forma di pubblicità allora consentita, travestita da minispettacolo e con assoluto divieto di mostrare superalcolici, tabacco, autovetture e altri strumenti di tentazione, quindi «il» telegiornale, poi qualche programma di inchieste, un quiz, un adattamento teatrale, un vecchio telefilm. Il film, vecchio anch’esso quanto basta, un sol giorno alla settimana: rigorosamente di lunedì, quando i cinema, quelli veri, ancora contavano gli incassi della domenica. Alle 23:00 sigla: «Fine delle Trasmissioni». E tutti a nanna. 

La Televisione (quella con la «T» maiuscola) svolgeva effettivamente un servizio pubblico. Programmi come «Non è mai troppo tardi» hanno meritoriamente alfabetizzato un’Italia ancora in larga parte analfabeta, mentre trasmissioni d’alta cultura, come «L’approdo», i numerosi adattamenti teatrali, la grande letteratura sceneggiata, l’opera lirica e la musica classica hanno colmato le molte lacune di chi pure alfabetizzato già lo era. 

In redazione si alternavano intellettuali del peso di Pier Paolo Pasolini o Umberto Eco, in buona compagnia di Alberto Moravia, Italo Calvino, Natalia Ginzburg, Leonardo Sciascia, Carlo Emilio Gadda...

Programmi come «Campanile Sera» hanno contribuito ad unificare il Paese, ponendo a raffronto le ancora troppo differenti specificità regionali, dalla cucina alla lingua, e il «Telegiornale della Sera» è stato a lungo la principale fonte di informazione per quanti non abitavano a Roma, Torino, Napoli o Milano, e i quotidiani a stampa non potevano leggerli se non nel tardo pomeriggio, quando (e se) riuscivano a raggiungere l’edicola. O addirittura il giorno dopo, se vivevano in Sicilia o in Sardegna. 

Un televisore a tubo catodico in bianco e nero – formato massimo: 21’ (poco più di un odierno computer portatile) – costava quanto sei mesi di stipendio, necessitava di uno stabilizzatore di corrente (l’energia elettrica, dove e quando c’era, soffriva di continui sbalzi) e di un’antenna personale (non esistevano impianti condominiali). Ma soprattutto, necessitava del segnale televisivo. Che copriva a stento una metà dell'intero territorio nazionale.

Dal punto di vista dei contenuti, la Televisione era la voce della Nazione. Chi se ne fosse impadronito con la forza si sarebbe impadronito dell’Italia. Per questo nelle portinerie delle molte sedi nazionali e regionali non ci stavano i centralinisti, ma i Carabinieri. 

Le spese erano notevoli. Telecamere e mixer video non si acquistavano come oggi in supermercato, ma venivano appositamente progettati e costruiti per quell’unico cliente. Neppure esistevano i satelliti: per filmare una festicciola fuori porta occorreva inviare una troupe al completo. E sottolineiamo «filmare», perché non esistevano come oggi camere a spalla o persino tascabili, e il solo strumento portatile per l’acquisizione di immagini era la buona vecchia (e pesante) Arriflex da 16mm. Rigorosamente priva di audio. Cosa che rendeva impossibile quello strumento principe della moderna disinformazione che è l’intervista piriforme (a pera): grazie alla quale è sufficiente raccogliere le opinioni di qualche decina di passanti a caso per poi mandare in onda, opportunamente montate, quelle che meglio rispecchiano le convinzioni dell'intervistatore. Senza la presa diretta la traccia audio era sinteticamente appuntata dal giornalista sul taccuino, per esser poi unita alle immagini giusto pochi minuti prima che il «Telegiornale della Sera» andasse in onda. 

I telespettatori di allora si dividevano in due categorie: quelli che potevano permettersi l’acquisto di un televisore (e abitavano in un quartiere coperto dal segnale) e quelli che la televisione se la godevano a sbafo dalle vetrine di quei negozi dove gli apparecchi restavano sempre accesi o, meglio ancora, in tutti quei bar che avevano presto affiancato il piccolo schermo al juke-box, confidando non solo nella capacità del mezzo di attrarre nuovi clienti, ma anche in quella di tenerli per ore inchiodati al tavolino. 

I primi, i più fortunati, pagavano un «canone di abbonamento» annuale. Chi invece il televisore se lo guardava al bar, lo pagava in birre e fiaschi di vino. Che consentivano al proprietario del locale di versare a sua volta il canone richiesto. 

Cinquant'anni dopo, quella Televisione (con la maiuscolissima «T») non esiste più. 

Esistono le televisioni (con la «t» meno che minuscola). 

Più della politica poté la tecnologia: la comparsa dei primi videoregistratori VHS, delle telecamerine a basso costo, la diffusione degli apparecchi televisivi in ogni casa. 


A proteggere la RAI c’era il monopolio di Stato, è vero, ma anche in quel caso la tecnologia fece il resto. La prima televisione privata (Tele Napoli, 1966) utilizzò il cavo per diffondere i suoi programmi, anziché l’etere, presto imitata da Tele Biella (1972), anch’essa su cavo. Alcune sentenze della Corte Costituzionale (1974, 1976), chiamata in causa, dichiararono pienamente legittime le trasmissioni via cavo, considerando che la tecnologia del tempo le avrebbero necessariamente confinate in un ambito territoriale assai limitato, senza pregiudicare il monopolio RAI dell’etere.   

L’arrivo in Italia della televisione a colori (1977) suscitò un rinnovato interesse fra i telespettatori e rivitalizzò il mercato dei ricevitori televisivi, ormai alla portata di tutti.  

Fu l’emittente Telemilano, poi divenuta Canale5 (1980) a rompere per prima il vincolo della località, con l’estemporaneo escamotage di trasmettere localmente e attraverso il cavo, ma in contemporanea, i medesimi programmi in differenti regioni, dando così vita ad una prima rete televisiva nazionale di fatto.  

Il successo fu immediato. La moltiplicazione delle emittenti e delle ore di trasmissione fece esplodere la richiesta di programmi, in gran parte coperta con l’acquisizione di vecchie produzioni televisive americane, mai precedentemente trasmesse in Italia. I profitti, in assenza di canone, furono coperti con la pubblicità, liberata dalla gabbia di «Carosello» e dilagante ovunque, persino all’interno dei telegiornali. 

Il monopolio RAI crollò definitivamente nel 1990, quando la legge Mammì legalizzò definitivamente le trasmissioni, anche via etere, su tutto il territorio nazionale. 

Quel che accadde dopo, nessuno riuscì a prevederlo.

La RAI, unico modello di televisione presente in Italia fino agli anni Ottanta, dunque il solo a cui potessero ispirarsi le neonate emittenti private, finì col ritrovasi invece al traino della televisione commerciale, giungendo ad imitarla persino nelle peggiori manifestazioni, dal soft-porno all’invasione pubblicitaria, dalla programmazione cinematografica indiscriminata fino ai più indegni format delle televisioni popolari americane. 

Tanto degrado non segnò la fine della RAI, che pure insieme al monopolio volle rinunciare anche al suo illustre e benemerito passato, ma posò una pesante pietra tombale sul suo importante ruolo di servizio pubblico, mutilato dei programmi di maggior respiro culturale e piegato anch’esso ai gusti di una platea tanto più vasta quanto più ignorante e retriva. 

Il cosiddetto «canone di abbonamento», originariamente (1938) dovuto dai possessori di apparecchi riceventi (allora soltanto radiofonici) e successivamente inteso come corrispettivo del servizio televisivo pubblico, riconfermato nel 2002 come tassa di possesso su qualsiasi apparecchio atto a ricevere, finisce interamente nelle casse della RAI. Sommato ai nuovi e consistenti ricavi pubblicitari e a fronte di un «servizio pubblico» ormai inesistente. Al punto che se  qualcuno occupasse oggi con la forza la RAI, lungi dall’impadronirsi del Paese pochi si accorgerebbero forse del fatto.

Tassa largamente evasa dopo la nascita delle tivù commerciali, il canone fu aggregato nel 2016 alle tante spese accessorie della bolletta elettrica.

Oggi, pur di far bella figura tagliando (apparentemente) le spese energetiche delle famiglie, il ministro dell'Economia progetta di spostarlo invece sui contratti telefonici. Con la motivazione che la ricezione delle trasmissioni televisive avviene oggi «anche» attraverso il web.

Rimane tuttavia aperta una questione ancor oggi irrisolta. 

Se è vero che non esiste più «la Televisione», ma «le televisioni», perché mai una tassa di possesso sugli strumenti di ricezione dovrebbe nutrire una sola emittente (la RAI SpA, società di diritto privato come tutte le altre) e non invece esser ripartita in misura uguale, o proporzionale agli ascolti, fra tutte le stazioni trasmittenti?

«Perché la RAI è la sola a offrire un ‘servizio pubblico’», è la furba quanto puntuale spiegazione. 

Alla quale (sorvolando sul fatto che di «servizio pubblico» da tempo in RAI non vi è più traccia alcuna, e che gli introiti pubblicitari superano ormai quelli del canone) qualsiasi persona portatrice sana di licenza media potrebbe agevolmente rispondere che, dal momento che anche le altre emittenti svolgono un «servizio pubblico», non meno, se non di più, di una RAI che ha ormai sdoganato anche il peggior turpiloquio, non si comprende perché la concessione di tale «servizio pubblico» non debba esser posta a gara fra tutte le televisioni con procedura d’appalto chiara e trasparente, che regolamenti l’accesso ai programmi, garantisca il pluralismo dell’informazione e limiti l’invadenza pubblicitaria. Nell’osservanza delle (inosservate) direttive comunitarie in materia di libera concorrenza.

Chi si oppone alla messa a gara del servizio pubblico radiotelevisivo (tutte le forze politiche) è chiaramente in malafede: considera la RAI non come un servizio pubblico, ma come un servizio personale. Bottino di guerra, più che strumento gramscianamente volto alla crescita culturale delle masse. 

E il bello è che chi difende a spada tratta gli immotivati privilegi della RAI SpA si atteggia magari a «progressista», quasi considerasse un «progresso» il precipizio che ha pian piano condotto l’azienda da Alberto Manzi ad «Affari tuoi» o, sull'altra sponda, si qualifica come «conservatore», quasi intendesse conservare lo spirito educativo che animò la prima programmazione RAI, e non farne invece una brutta copia dell’Istituto Luce. 

E dà da pensare il fatto che tanto i fautori del sedicente progresso quanto quelli della sedicente conservazione ben si guardino dal metter mano al Regio Decreto legge del 21 Febbraio 1938, promulgato da Vittorio Emanuele III, per grazia di Dio e per volontà della Nazione re d'Italia e Imperatore d'Etiopia, istitutivo del canone: «Chiunque detenga uno o più apparecchi atti od adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento  del  canone di abbonamento...». Redatto sedici anni prima che la televisione facesse la sua prima comparsa in Italia. 

Quelle stesse persone che non esitano a definire «riforma epocale» la semplice modifica di un articolo di legge vecchio di soli due o tre anni, non esitano a difendere coi denti un decreto regio che di anni ne conta ormai ottantacinque, riferito per giunta a qualcosa che al tempo doveva ancora nascere.   

Fortunatamente, quel medesimo apparecchio sul quale a sua insaputa Re Vittorio ci fa obbligo di pagare una tassa, viene fornito competo di un interruttore e di un telecomando. 

In assenza di un vero servizio pubblico, possiamo se non altro regalarci un ottimo servizio privato: quello di cambiare canale o, meglio ancora, spegnere l’elettrodomestico per dedicarci ad altro. 

E rassegnarci a considerare il cosiddetto canone, questo sì, un vero e proprio «pizzo di Stato.

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