Non solo l’innata volgarità di chi pure è nato sulle sponde del Neva e non del Volga, o bimbo viziato tra le bande giovanili del Queens, o ha trasformato il Parlamento in Strillamento, facendolo risuonare dei richiami che le lavandaie usano scambiarsi dagli stretti balconi dei quartieri di Roma.
Come ai tempi del maestro di Predappio o dell’imbianchino di Braunau, figlio di padre ignoto, la volgarità al potere è ancora una volta il prodotto della sete di rivincita di quegli strati emarginati che – per decisioni altrui – pagano ogni volta il prezzo dei grandi mutamenti della Storia.
Carburante del Fascismo fu la delusione dei reduci della Grande Guerra, osannati come vincitori e ricoperti di medaglie, ma infine ben più miseri di quando indossavano la divisa, che fruttava ad essi quanto meno il rancio quotidiano e la riconoscenza dei concittadini.
Il maestro di Predappio restituì loro le armi e una divisa – nera di rabbia – e ne amplificò le rivendicazioni, etichettando come nemici dapprima i grandi possidenti agrari, in seguito chiunque occupasse una posizione di prestigio o di potere: dal Regio governo fino ai professori delle università.
Il Nazionalsocialismo, a imitazione del Fascismo, nacque in un paesino di confine tra Austria e Germania, a metà strada tra Roma e Berlino. Motivo di scontento popolare fu in quel caso la crisi economica di un Paese ingiustamente additato (e punito) come unico colpevole degli immani disastri della Grande Guerra, impoverito dall’azzeramento del marco nella Repubblica di Weimar e definitivamente steso al suolo dalla crisi americana del 1929, che vide interrompersi il flusso di dollari proveniente dalle rimesse degli emigrati.
L’allievo col baffetto superò il maestro. Restituì anch’egli agli sfaccendati reduci una bandiera e una divisa, bruna anziché nera, ne coprì le prepotenze e i crimini e riuscì infine ad impadronirsi del potere. Nel 1933, con il 44% del voto popolare.
Le teste dei fessi sono le scale dei furbi.
E chi, agli occhi della Storia, è più fesso di quanti han dato o rischiato la vita per difendere il proprio Paese, ricevendone in cambio miseria, discredito e sputi? E chi più furbo di colui che ha saputo volgere a proprio vantaggio il disagio e lo scontento?
Questa la Storia di ieri.
Ma oggi, mentre osserviamo nuovi più crudeli dittatori affacciarsi da inediti balconi televisivi e informatici, vomitando le medesime parole di ignoranza e di odio, senza neppure la giustificazione di un conflitto planetario o di una miseria tale da far sì che il volgo debba come allora impegnarsi le lenzuola per mangiare, quali motivazioni e quali spiegazioni potranno riservarci i libri di domani?
Non è più il 1945. Dove sono i reduci di guerra, i mutilati che chiedono la carità per strada, le famiglie rifugiate tra le macerie della case distrutte, il denaro ridotto a carta straccia, il cibo che manca?
Chi sono i fessi di oggi, sulle cui teste i nuovi furbi tentano di scalare le vette?
Due fenomeni del nostro tempo andrebbero forse considerati con maggiore attenzione: 1) la fine dell’età industriale in Occidente, ormai prossima in Oriente, ancora fiorente in India e in via di sviluppo in Africa; 2) la nascita di una vera comunicazione di massa («tra» le masse) in sostituzione di quella che nel recente passato altro non fu che una comunicazione «alle» masse.
La comunicazione «alle» masse fu uno dei motori tanto del Fascismo che del Nazionalsocialismo: nessuno avrebbe potuto riempire le piazze se l'invenzione degli altoparlanti non avesse reso possibile ad una moltitudine abbeverarsi alle parole di un’unica voce, e le nuove ideologie mai avrebbero potuto propagarsi, in un Paese ancora analfabeta, senza le trasmissioni radiofoniche avviate dall’ARI (Associazione Radiofonica Italiana, 1924), poi monopolizzate dall’EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche, 1927).
L’altoparlante dei nostri giorni è il web. Con alcune sostanziali differenze. Non soltanto la diffusione del pensiero è adesso gratuita e planetaria ma, a differenza della radio o della televisione (un solo microfono per milioni di altoparlanti), nel web il numero dei microfoni supera di gran lunga quello degli altoparlanti: chiunque può scrivere o dire quel che vuole (questo misero blog ne è la prova) ma non v’è certezza alcuna che, dall’altra parte, qualcuno legga o ascolti quel che è stato scritto o detto. E quando accade che uno di quegli otto miliardi di microfoni riesca a raggiungere qualche migliaio di orecchie, immediatamente è promosso al rango di influencer: un Mussolini in miniatura, un piccolo Hitler, un nuovo furbetto riuscito ad elevarsi scalando le teste di un numero sufficiente di fessi.
Ma che potrà mai succedere (che sta succedendo!) quando l’influencer si scopre – come un Musk – anche padrone del mezzo, e ne comprende d’un tratto la forza? Di quanto potere avrebbe un influencer ascoltato non da dieci o ventimila followers, ma da uno o due miliardi di fessi?
Un altro non trascurabile effetto della nuova comunicazione tra masse (non più «alle» masse) è la possibilità conferita a chiunque di osservare da vicino il loro non-prossimo, superando in tal modo il machiavellico assunto che «Ognuno vede quel che tu pari; pochi sentono quel che tu sei, e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione de’ molti (Principe, XVIII)».
Oggi tutti possono percepire quel che tu sei: chiunque può esattamente comprendere che cosa siano e quanto valgano un Trump o un Putin, non soltanto il cameriere o chi vive loro accanto. Chiunque può osservarli non solo mentre si mostrano tra ali di folla, in carrozza ed ermellino, ma anche nell’intimo di casa loro, in mutande e senza.
Resta però ancora valida la seconda parte della cinquecentesca considerazione: per quanto chiunque possa cogliere la volgarità e la bestialità del Principe, pochi ardiranno contraddirlo, ed apertamente combatterlo. E questo è il segreto di ogni piccola o grande dittatura.
Un’altro non trascurabile effetto collaterale del web è quello di render visibile anche agli occhi dei diseredati del mondo la (falsa) immagine di luoghi e nazioni che facilmente appaiono, a chi nulla possiede, autentici paradisi terrestri. E conseguentemente calamitano un’immigrazione disperata oggi difficilmente integrabile nei Paesi più sviluppati. E la mancata integrazione finisce con l’aggiungere ulteriori motivi di insoddisfazione, tanto tra i residenti che tra gli aspiranti tali.
C’è un motivo ben preciso, se i nuovi immigrati non trovano spazio neppure in quei Paesi, come gli USA, che pure dall’immigrazione sono nati. E quel motivo è la fine dell’età industriale in Occidente. Quella che ancora negli ultimi anni del secolo consentiva alle fabbriche di offrire un immediato impiego a chiunque: anche se privo di una specifica formazione, anche se analfabeta, anche se incapace di comunicare ed esprimersi nella lingua locale. Nessuna preparazione era necessaria per avvitare un bullone o per levigare una tavola. Solo due braccia, e buona resistenza alla fatica.
Oggi quei bulloni li avvita una macchina. E in luogo dell’operaio (di cento operai) c’è un operatore. E quell’operatore necessita di formazione e di padronanza della lingua.
Nessuno può essere immediatamente integrato nel processo lavorativo, nella nuova società industriale. Dove l’industria esiste ancora, ma non è più in grado di occupare manodopera a formazione zero: quegli immigrati adescati un tempo da un’America che Hollywood amava dipingere terra di opportunità, ricca ed attraente, ed oggi attratti da quei frammenti di libertà (quando non di sregolatezza e impunità) che il web diffonde in ogni più sperduto angolo del mondo.
Cresce così l’esercito di insoddisfatti, di chi inseguiva il sogno di un paradiso e si è ritrovato invece all’inferno, così come di quelli che all’inferno già ci stavano, ma incolpavano altri di aver loro rubato il paradiso.
Dall’insoddisfazione nascono i sogni di rivincita, insieme con l’illusione di poterli realizzare non per mezzo dell’impegno, dello studio, del lavoro, ma con la ribellione.
Ribellione che può forse scaldare e unire gli animi, ma raramente conduce a ragionevoli soluzioni. La Rivoluzione dell’89 ha tagliato la testa a un re per poi ritrovarsi sotto un imperatore. Quella del 1917 ha messo al muro uno Zar per ricavarne in cambio uno Stalin.
Anche gli angeli, quando si ribellano, diventano diavoli. E i diavoli, si sa, votano Satana. Quando va bene. Quando va male, preferiscono Putin, o Trump.
La sofferenza dei Paesi più avanzati, impegnati a gestire la complessa transizione dall’età industriale verso nuovi modi di produzione e convivenza sociale, si scontra a livello planetario con quelle nazioni dove l’età industriale ancora sopravvive, o è in pieno quanto tardivo sviluppo.
La Cina, dove quel modo di produzione è vicino al tramonto, rischia di essere superata dall’India non solo sul piano demografico, ma anche economico. E scommette sull’Africa, dove l’età industriale è appena agli albori, ancora concentrata sul tessile.
La Russia, che nulla produce e nulla ha mai prodotto, se non armamenti di modesta qualità, e vive di raccolta come tutte le popolazioni primitive, ha meno da temere dalla fine di un’età industriale che non ha mai conosciuto, e cerca di sfruttare al massimo questo che considera (come in effetti è) un vantaggio. Ed alza di conseguenza le pretese e la voce.
Ma i dittatori non hanno un futuro, insegna la Storia. Dove non son riusciti Hitler e Mussolini, difficilmente potrà andar meglio ad un Trump, o ad un Putin.
Vivranno fintanto che le illusioni che essi seminano non matureranno in irrimediabili delusioni: quando le insoddisfazioni degli insoddisfatti finiranno per rivolgersi contro di essi.
Lo aveva capito Gramsci, che non nella provvidenziale figura di un padre padrone, ma nell’educazione e nell’evoluzione delle masse aveva indicato la via della civile convivenza e del progresso.
Un insegnamento del tutto opposto a quello di una politica sempre più affamata non di elettori (ed eletti) liberi e coscienti, ma di asini da soma, docili da manovrare.
Una politica che predica e predilige l’ignoranza, materia prima di ogni potere, e che fa dell’Europa, dove la cultura occidentale è nata, un nemico da combattere. Come lo è per il bimbo Trump, che tenta di emanciparsi dal padre, per il compagno di merende Putin, per l’isolato Xi Jinping. Indispettiti dall’esistenza stessa di un Continente che, ai loro miopi occhi, tarda a seppellire e a cancellare quei secoli di studio che han fatto dell’Europa un serbatoio di conoscenza e la memoria storica del mondo.
Una plurimillenaria biblioteca del Sapere che troppi novelli dittatori, come nel 1933 in piazza a Berlino, vorrebbero quanto prima dare alle fiamme: Bücherverbrennungen del Terzo Millennio.
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