È uno dei tanti aspetti di quella campagna elettorale permanente che quotidianamente riempie le pagine dei giornali del Paese, altrove destinate invece alle notizie.
In nessun’altra parte del mondo qualcuno si sognerebbe di distribuire musica senza far pagare un biglietto il cui prezzo, nei primi posti, può facilmente oltrepassare i mille euro. Per quanto dispendiosi, i tanti festeggiamenti che il mondo comunque apparecchia per salutare il nuovo anno non prevedono l’esibizione gratuita di star internazionali, ma fuochi d’artificio, luminarie, sfilate, effetti speciali, parate, balli o bagni di mezzanotte in spiaggia, come a Copacabana.
A Times Square (nel doposangiuliano generosamente restituita a New York) lo scoccare della mezzanotte è accolto da una folla sterminata che si limita a scandire il count-down della sfera che, con lenta discesa, annuncia l’inizio del nuovo anno. A Berlino si mangia e si beve intorno alla porta di Brandemburgo. A Londra, dopo i fuochi sul Tamigi, la folla si disperde nei numerosi locali (a pagamento!). A Las Vegas, dove le luminarie brillano per tutto l’anno, in quell’ultimo giorno superano se stesse. Ma non c’è spettacolo che non richieda un biglietto.
Così accadeva anche in Italia, quando ancora esisteva un’imprenditoria privata nel mondo della musica e dello spettacolo.
Quando i Beatles sbarcarono nello Stivale, in quell’ormai paleozoico 1965, non furono i Comuni di Milano, di Genova e di Roma a scritturarli, e tanto meno la RAI, ma un impresario sconosciuto ai più, di nome Leo Watcher, con l’aiuto della casa discografica Carish, che colse l’occasione per promuovere molti dei propri artisti come musicisti «di spalla» (come venivano chiamati quei giovani in cerca di notorietà chiamati a scaldare il pubblico prima dell’esibizione della star di turno, che raramente superava i quarantacinque minuti).
Non una lira uscì dalle casse pubbliche. E neppure sarebbe stato immaginabile, allora. L’impresario trovava i finanziamenti, contrattava le star, affittava i teatri, pagava la pubblicità (non esisteva sui giornali la pagina degli spettacoli, colma di marchettoni gratuiti) e staccava i biglietti. Se la tournée aveva successo, buon per lui. Se era un flop, pazienza. Sarebbe andata meglio la volta successiva.
Tutto cambiò dopo il 1977, con l’avvento delle fortunate «Estati romane»: sapiente trovata dell’allora assessore alla Cultura del Comune di Roma, Renato Nicolini. Una valanga di spettacoli cinematografici, musicali, teatrali si abbatté sulla città. Tutti rigorosamente gratuiti. O meglio: pagati con soldi pubblici.
Che di ulteriore «cultura» una capitale culturale del peso di Roma non avesse poi così gran bisogno, era chiaro a tutti. Che sdoganare come «cultura» (in nome dell’allora popolarissimo «relativismo culturale»), musica pop, filmetti, avanguardia teatrale e cabaret non fosse per la città una priorità assoluta, era altrettanto evidente. Ma era tutto aggratis, e le notti romane erano lunghe. E la ricca carrellata di eventi ricoprì di facili quanto sterminati consensi la giunta guidata al tempo dallo storico dell’arte Giulio Carlo Argan.
In tutta Italia si scatenò il dibattito sull’opportunità di lasciare alle amministrazioni locali il compito di mescolare cultura alta e cultura di massa, sostituendosi all’allora folta presenza privata nel settore.
Molti furono poi i Comuni che vollero imitare l’amministrazione romana, tanto che nel giro di un decennio ogni forma di imprenditoria nel settore della musica e del teatro, in Italia, scomparvero completamente. Ultima in ordine di tempo: la discografia.
Oggi non esiste, tra gli artisti, altra via per emergere se non quella della radiotelevisione (in gran parte statale) o degli spettacoli nelle piazze, nei teatri o nei monumenti arbitrariamente e liberalmente concessi dal Governo o dagli Enti Locali.
La contropartita di tanta apparente generosità è di due differenti specie: la prima, di nicoliniana memoria, è la costruzione del consenso (poco panem, molto circensens), la seconda è il ferreo controllo dei contenuti, che promuove gli artisti «graditi» e cancella quelli sgraditi. Col risultato di tener fuori dai confini spettacoli di straordinario successo internazionale, come il teatro in musica dei Blue Man Group, ma poco utili alla causa (elettorale).
Se tanta innaturale selezione, insieme alla scomparsa di un intero settore dell’economia privata, desta oggi finalmente un certo scalpore, è perché l’attuale compagine governativa, muovendosi come un elefante in cristalleria, ne pesta così tante che qualcuna finisce poi sui giornali: come la tagliola a Sanremo, i divieti al Circo Massimo e via via distruggendo.
Pazienza. Ancora dieci giorni e il duemilaventiquattro saluterà milioni di Italiani dai soli palcoscenici al mondo dove (apparentemente) non si paga alcun biglietto. I fessi, come loro mestiere, applaudiranno ed un nuovo anno, non necessariamente migliore del vecchio, si affaccerà alla soglia.
Auguri.
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