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Costruire e distruggere

Per potersi onestamente definire «conservatori», occorre innanzitutto possedere qualcosa che meriti d’esser conservato: una tradizione, una storia, un patrimonio.

Una forza politica che ami dichiararsi «di destra» ma lungi dal promuovere la conservazione auspichi invece una rivoluzione, non può certamente definirsi «conservatrice». 

Ed infatti, ovunque nel mondo, una forza che agisca in tal senso la si definisce più propriamente «fascista». 

Con la «f» minuscola, per distinguerla dal Fascismo, regime politico incarnato dal Partito Nazionale Fascista, al potere in Italia dal 1923 al 1943: in quanto tale magari imitabile, ma di fatto irripetibile. 

Nell’accezione internazionale, l’aggettivo «fascist» rimanda ad un qualsiasi sistema politico autoritario, totalitario, nazionalista, intollerante e razzista («a political system based on a very powerful leader, state control of social and economic life, and extreme pride in country and race, with no expression of political disagreement allowed», Cambridge Dict.). Come lo furono la Spagna di Franco, la Germania di Hitler, il Portogallo di Salazar, ed ancora lo sono la Russia di Putin o i tanti staterelli autocratici nati un po’ ovunque da estemporanei golpe militari. 

Nessuno, fuori dall’Italia, si azzarderebbe a definire «di destra» il Fascismo. A cominciare da quel medesimo PNF che la Destra (quella vera) l’ha combattuta ovunque, in Parlamento e fuori, annegandola nell’olio di ricino, eliminandola fisicamente o inviandola al confino, che si trattasse di intellettuali delle libere università o di industriali non disposti ad asservirsi al regime. 

Il PNF non è mai stato un conservatore, ma rivoluzionario. Lo è stato sin dal primo Manifesto di San Sepolcro (1919), atto fondante dei Fasci Italiani di Combattimento (le camicie nere), largamente ispirato dalla Rivoluzione Russa del 1917. In quel primo documento costitutivo si chiedevano a gran voce, tra l’altro, il suffragio universale col diritto di voto e l’eleggibilità per le donne, la giornata lavorativa di otto ore, il salario minimo, la partecipazione operaia nella gestione delle fabbriche, la pensione anticipata a 55 anni (anziché a 65), una «forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo», il sequestro dei beni delle congregazioni religiose...

Il PNF è stato rivoluzionario – e non conservatore – con la marcia su Roma. Lo è stato quando, minoranza in Parlamento, si è imposto con la violenza dopo il delitto Matteotti. Lo è stato quando ha interrotto ogni relazione con la Francia e l’Inghilterra per avvicinarsi all’ex nemico tedesco.

Nulla a che vedere col conservatorismo di una vera Destra, quella che durante il regno ha dato all’Italia un Cavour o un Ricasoli e, nella repubblica, i Montanelli, gli Spadolini, i La Malfa, i Segni, gli Einaudi...

Che una vera Destra non possa esser altro che conservatrice, dunque intrinsecamente antirivoluzionaria e conseguentemente antifascista, emerge in questi giorni in misura sempre più accentuata dalla crescente distanza tra il partito di Tajani (il ladrone buono) e quello di Salvini (il ladrone cattivo), entrambi crocefissi a lato di quella Nostra Signora dei Meloni di tanto in tanto intenta a volgere un sempre meno materno sguardo in direzione ora dell’uno, ora dell’altro. 

Non occorre la sfera di cristallo per veder spuntar qua e là le candide manine degli eredi Berlusconi che, svirgolettando alcune recenti interviste con non richiesti ma illuminanti pareri, sembrano aver preso coscienza di una loro diversa collocazione nel mondo rispetto a quella del padre fondatore. 

Se è vero che fu necessaria allora una vera rivoluzione antistatale per far implodere il monopolio televisivo, sconvolgere gli equilibri dell’editoria ed entrare a gamba tesa nel mondo del cinema e della grande distribuzione, urge adesso un’opposta spinta conservatrice per mantenere saldo nelle proprie mani il frutto di quelle prime spericolate quanto avventurose conquiste. 

Il padre fondatore, costretto ad operare talvolta al di là degli stretti margini della legalità, non riuscì mai a sfondare all’estero: seppe facilmente conquistarsi le simpatie dei compatrioti, orecchie tese alle note d’ogni pifferaio, ma mai riuscì a incantare i più avveduti consumatori e telespettatori stranieri. 

All’opposto, i Berlusconi 2.0 sanno come rendersi credibili anche oltre le Alpi. E lo farebbero ancor meglio se solo riuscissero a proporsi al mondo con uno stile che sappia andar oltre quello della Sgarbatella, o dei suoi portatori insani di proletarie felpe e sudamericani mojiti.

Che i tempi siano propizi al ritorno di una Destra in giacca e cravatta, che parli l’Italiano, mangi con le posate si astenga da ogni scomposto gesticolare (oltre che da bandane e sguaiati doppi sensi) paiono certificarlo diversi segnali. 

La caccia al centro moderato, quella maggioranza che ama starsene a casa al momento del voto, non è stata intercettata dal duo renzocalendiano, che tutto ha mostrato al mondo tranne quei toni moderati che ai moderati più si addicono. Ma pur sempre esiste.

La volpe Renzi, scorgendo l’impossibilità di conquistare i moderati con atteggiamenti aggressivi, ha presto rivolto lo sguardo al malprotetto ovile da cui proviene, col non nascosto intento di rimpadronirsene. 

Il quieto Tajani, intanto, coglie il frutto di una spinta elettorale che lo ha innalzato qualche centimetro al di sopra dell’opposta croce. 

Le reazioni malcelatamente scomposte della Sgarbatella, che vede con preoccupazione allentarsi le primitive alleanze che fan da solido piedestallo al suo (scontato) successo, rappresentano un ulteriore indizio. 

Che un’intera platea elettorale sia sul punto d’esser rimappata, lo han mostrato il recenti maldipancia francesi, con la vera Destra, incarnata da Macron, fatta passare per rivoluzionaria; i fascisti bombaroli di Le Pen spacciati per destra conservatrice, i ladri spaccavetrine della banlieue etichettati «di sinistra» da un Melanchon pronto a presentare come «lavoratori» ragazzi di strada che non han mai lavorato un solo giorno, e tampoco ne coltivano l’intenzione, ma pronti a sventolare le bandiere di Hamas a testimonianza della loro fede «democratica».

Certo, osservando in televisione le strade di Parigi invase da tante rumorose minoranze, verrebbe da chiedersi dove fosse in quel preciso momento la maggioranza della popolazione. Se sia vero o falso l’assunto iniziale: che realmente esista una maggioranza di «conservatori» priva di adeguata rappresentanza, disperatamente alla ricerca di una casa politica

Ebbene: la maggioranza della popolazione ha parlato due settimane dopo, in occasione dei ballottaggi

Lì si è scoperto che folle apparentemente nemiche, intente ad agitare opposte bandiera, altro non erano che due facce di una sola ed unica sventurata minoranza: persone senza nulla che meritasse d’esser conservato. Non un patrimonio, da costruirsi col lavoro; non una tradizione, abbandonata nel Paese di provenienza; non una storia, maldestramente letta come ininterrotta persecuzione nei loro confronti. 

Chi invece una tradizione, una storia, un patrimonio li possedeva, fiutato il pericolo s’è alzato dal letto, ha lasciato al muro le racchette del tennis o le mazze del golf, è sceso in strada e – per la via più breve – si è avviato alle urne. 

Per conservare quel che molte generazioni, con infinita fatica e tanti giustificabili o ingiustificabili mezzi, son comunque riuscite a costruire. E che in troppi, incapaci di dar vita a qualcosa di meglio, si accontenterebbero di distruggere.

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