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Roba da museo

Una settimana fa, con gran lungimiranza, dalle pagine del Corriere l’editorialista Goffredo Buccini metteva in guardia gli Italiani dalle insidie dell’imminente 25 Aprile, il primo alla presenza di un governo che faticosamente si sforza di tenere insieme le diverse anime – la nostalgica, l’avventurista, la faccendiera – di una destra ancora in cerca di rispettabilità: «Mai come il prossimo 25 Aprile dovremmo decidere se camminare con la testa girata all’indietro oppure guardando in avanti».

Centro! 

È il nocciolo della questione. Fare del 25 Aprile, oggi festa della Resistenza – o meglio di una risicata parte di essa, considerati i fischi che nei cortei puntualmente accolgono i partigiani delle Brigate Ebraiche – la celebrazione di quel processo fondante che ha consentito all’Italia di superare in un sol colpo l’esperienza fascista e quella monarchica, dando vita a uno Stato repubblicano nuovo di zecca. 

Anche solo immaginare che i ministri dell’attuale governo possano oggi sfilare in piazza tra le bandiere rosse dei sindacati e le bombolette dei guastamuri, tra le urla e gli insulti di chi, anziché inorgoglirsene preferirebbe estrometterli dal corteo, se non menarli, è pura fantascienza. 

Ma lo sarebbe anche illudersi che la medesima folla ululante rinunci a un palcoscenico sul quale intende continuare a restarci sola e da padrona, unica depositaria di un generico quanto imprecisato pensiero riassumibile in una parola dai molteplici significati, «antifascismo», oltre che nelle note orecchiabili di «Bella Ciao», canzone-elastico buona per ogni occasione. 

La distanza tra un governo ancora incerto su quale faccia da indossare per l’occasione e un’opposizione intenta a costruirsi un’immagine tanto più radicalizzata quanto meno credibile, si è plasticamente manifestata in questi giorni al Senato, dove la maggioranza ha votato con ecumenici intenti la mozione sul 25 Aprile presentata dal centrosinistra, senza però che quel medesimo centrosinistra ricambiasse la cortesia. Bocciata la mozione del centrodestra, l’opposizione ha chiuso in tal modo la via ad ogni possibile cenno di riconciliazione. 

«Manca nella mozione la parola ‘antifascismo’!». È stata la motivazione indignata e inviperita di un’opposizione da ditino alzato. Che di quella parola pare ignorare persino il significato. Perché in Italia non si usa distinguere tra i due termini «Fascismo» (con la «F» maiuscola) e «fascismo» (con la «f» minuscola). 

La lingua inglese, invece, li distingue eccome. La maiuscola identifica un partito e una politica: quella di Mussolini e del ventennio, e non altro. Dunque qualcosa di non più esistente: morto e consegnato alla Storia. La minuscola indica invece un pensiero autoritario e totalitario che si fa Stato dapprima in Italia ma prosegue altrove, tant’è che gli Americani chiamano fascists Adolf Hitler e i suoi seguaci, quelli che noi siamo invece soliti chiamare, con un’abbreviazione, nazisti

Così la Holocaust Encyclopedia definisce il fascismo (quello minuscolo): «Il fascismo è una filosofia politica ultranazionalista e autoritaria. Combina elementi di nazionalismo, militarismo, autosufficienza economica e totalitarismo», per poi tracciare una breve storia del Fascismo (maiuscolo) e dei movimenti e partiti fascisti nati nel primo dopoguerra in Europa e negli USA, e di come Mussolini, dando vita al primo Stato fascista, aprì la strada alla British Union of Fascist di Oswald Mosley (1932), all’ascesa al potere di Adolf Hitler in Germania (1933), di Francisco Franco in Spagna (1939), dei numerosi dittatori impadronitisi del potere in Sudamerica.

Sintetizzando: mentre il Fascismo (maiuscolo) non esiste più e mai potrà più esistere, se non sotto le mutate spoglie di possibili Neofascismi, il fascismo (minuscolo) è invece bello vivo e lotta contro di noi. È vivissimo in questo preciso momento in Russia, facile esempio. Ma non certamente in Italia, dove può tutt’al più ritrovarsene una nostalgica traccia tra qualche vecchio collezionista di antichi busti, folcloristico ed innocuo reperto come può esserlo il pur vistoso obelisco «DUX» al Foro Italico. 

Dovremmo dunque interrogarci, ogni qual volta risuoni l’aggettivo «antifascista», se lo si debba intendere con l’iniziale maiuscola o con quella minuscola. 

Se con la maiuscola, si tratta di una parola priva di senso nell’Italia attuale: manifestare contro un Fascismo defunto sarebbe come veder scendere i Francesi in piazza per inneggiare contro Napoleone, o gli Spagnoli contro il generalissimo Franco. Combattere contro i morti è un vincere facile. È un «camminare con la testa girata all’indietro», come gli zombie, magari illudendosi di andare avanti, come ogni autentico progressista al contrario vorrebbe.

Se con la minuscola, si tratta di una nobilissima idea che tuttavia, in una Repubblica saldamente fondata su una Costituzione che quel pensiero esplicitamente condanna e ripudia, non ha alcuna necessità di essere periodicamente urlata in piazza portando in processione simboli, idoli e parole di settantotto anni fa: quando la lotta era ancora contro il Fascismo (maiuscolo) e non contro un fascismo (minuscolo) assai meno visibile oggi in Italia che non in altre parti dell’Occidente di ben più antica tradizione democratica. Non essendo immaginabile, in quel di Roma, un Trump sbraitante che guida un assalto armato al Parlamento. 

Se l’Italia migliore, quella che l’antifascismo l’ha così tanto radicato nel cuore da non sentir l’esigenza di doverlo periodicamente strillare al mondo, volesse porre le basi per un’autentica e definitiva riconciliazione, che rinchiuda nelle sue tombe il Fascismo maiuscolo e quotidianamente combatta contro ogni manifestazione del minuscolo, dovrebbe avere il coraggio di farsi promotrice di una concreta quanto urgente proposta. Occorre colmare una storica mancanza. Occorre dar vita in Italia a un Museo Nazionale del Fascismo (maiuscolo), con organi direttivi di estrazione universitaria e un comitato di Garanti di natura parlamentare, coordinato con i musei della Resistenza già presenti sul territorio. 

Senza un Museo, il Fascismo mai potrà diventare «roba da museo». È un atto insieme di pubblica igiene e di umana pietà dar sepoltura a un cadavere ancora dissepolto. 

La Germania lo ha fatto. Più di cento musei, dai campi di concentramento alle istituzioni commemorative ebraiche, consentono ai visitatori di entrare in diretto contatto con gli orrori di un’epoca che persone meno documentate potrebbero idealizzare, se non ci fossero questi luoghi dove vederla invece materializzare.

Dove mai oggi, in Italia, una scolaresca potrebbe vedere e toccare con mano i crimini e i disastri del ventennio, le celle, le ossa, gli strumenti di tortura, le miniere dei forzati, l’odio di razza, le divise dei sabati fascisti, la censura, i fiaschi d’olio di ricino, il mondo estromesso dai confini nazionali, l’arte e la musica negata?

Visitare Auschwitz ed osservare con i propri occhi i sacchi di sabbia destinati alle trincee, tessuti coi capelli rubati a donne innocenti imprigionate ed uccise, grida con voce più forte di cento libri a stampa, di mille pellicole cinematografiche. 

Nella medesima lingua – quella degli oggetti, delle prove inequivocabili e tangibili – l’Italia dovrebbe narrare il Fascismo alle vecchie e nuove generazioni. Rinunciare a farlo, è come spazzar via sotto il tappeto vent’anni di Storia tra i più significanti: non solo per il Paese, ma per il mondo. 

Celebrare i futuri 25 Aprile visitando uno dei tanti Musei del Fascismo, piuttosto che fustigarsi per strada e lordare di vernice le vetrine delle banche, quello sì sarebbe un «camminare guardando in avanti». Misurandosi con la tragica realtà degli oggetti esposti, che non mentono mai, piuttosto che con le parole, che ciascuno cucina invece a proprio gusto. 

Sarebbero luoghi dove unirsi, anziché dividersi. E il posto giusto dove seppellire una volta per tutte i maleodoranti resti dell’ingombrante antenato. Diventato, infine, «roba da museo». 

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