Delle tre formazioni che avanzano, è quella la sola mostratasi in grado di crescere senza l’aiuto esterno di carcerati o generali d’armata, giovandosi soltanto dell’urna cineraria di cui sopra. Condotta alle urne. La quale, con ragionevole probabilità, ha forse finito col sottrarre qualche voto, piuttosto che conquistarne di nuovi.
Merito del vivo, dunque, più che del morto, se Tajani si è rivelato idoneo a proporre la rinnovata immagine di una vera Destra, conservatrice e non rivoluzionaria, lontana da quel manifesto neofascismo che pare invece animare altre forze della stessa maggioranza. Un Tajani più vicino a Cavour che non a Starace, insomma, a perfetto agio nella veste del ladrone buono, al lato della Sua Signora ma alquanto discosto dall’altro ladrone, mai così cattivo.
È in parte riuscita a Tajani quella mission impossible che ha visto clamorosamente fallire tanto il gatto Calenda che la volpe Renzi: intercettare un voto moderato parimenti schifato dalle volgarità neofasciste così come dall’inane chiacchiericcio di un’inesistente opposizione. E gli è riuscita grazie ad una sapiente utilizzazione di mezzi e strumenti moderati: indossando panni moderati e costruendo discorsi moderati che, in toni moderati, propongono obiettivi moderati.
Chi potrebbe sinceramente dire altrettanto del gatto romano e della volpe toscana?
Ben poche parole che possano definirsi «moderate» hanno avuto i natali tra le malserrate labbra di un Renzi o di un Calenda, leste ad affibbiar giudizi, pregiudizi e nomignoli, quando non addirittura a degenerare nella facile scorciatoia del turpiloquio o dell’insulto. E malamente può leggersi come portamento composto e compunto il loro frequente agitarsi, il gesticolare, l’ammiccare, l’alzare la voce, il mutare espressione del volto...
Se quella è l’esca, figuriamoci la pesca.
Il moderato non può abboccare ad altro che alla moderazione, non al suo contrario. Ed è con quell’esca che il placido Tajani ha placidamente riempito la sua (per adesso) piccola rete.
Le lezioni da apprendere sono tante.
La prima, già nota ai più, è che non basta una somma di minoranze per dar vita a una maggioranza: occorrono quanto meno un abile leader ed un obiettivo comune. Perché un conto è portare a destinazione un autobus con cinquanta passeggeri diretti verso la medesima meta, condotti da un autista che sa dove andare; un altro è un corteo di dieci auto, ciascuna con cinque litiganti a bordo, pronta a cambiar strada ad ogni possibile bivio o incrocio. Poche idee, ma forti e chiare, generano più voti di molte idee deboli e confuse.
La seconda lezione è che la vera lotta non è più tra una Destra (?) e una Sinistra (?), o tra Fascisti (?) e Antifascisti (?), o tra Progressisti (?) e Reazionari (?), ma tra Conservazione e Rivoluzione.
Chi possiede qualcosa (una casa, una famiglia, un lavoro), è fermamente intenzionato a conservarla. Chi invece è fortemente insoddisfatto di quel che ha (o non ha), vuole impadronirsene. Con le buone o con le cattive.
La Destra di Tajani vince perché è dichiaratamente conservatrice.
La Sinistra di Schlein regge perché in gran parte anch’essa lo è, con la sua rete di amministratori locali e di annidati a vita nelle partecipate statali, regionali, municipali, nelle scuole, nelle università: movimento travestito da partito e più attento a strizzar l’occhio al Vaticano che non ad incendiarne le chiese, come usava cantare ai tempi di Togliatti.
La Lega di Salvini, invece, perde e arretra, perché vive al proprio interno lo scontro tra incravattati e scamiciati: tra amministratori locali di scuola bossiana, attenti conservatori degli ottimi risultati conseguiti, ed una larghissima quota di incapaci ed impreparati, in cerca di facili rancorose vannacciane rivincite. Più pronti ad occupare una casa che a costruirsela. Per poi depredarla.
Resta una sola ultima domanda. La vera maggioranza, quel 52% che ha anteposto alle urne una passeggiata o il materasso, è (sarebbe) tendenzialmente conservatrice o rivoluzionaria?
I partiti risponderebbero che è soltanto pigra. Ma così non è. Perché prima ancora di disertare le urne, quella maggioranza ha disertato le piazze, nonostante i compiacenti obiettivi di televisioni amiche tentassero di mostrare (ma non dimostrare) il contrario.
Se il grosso del branco non ha abboccato, non è stato per svogliatezza, ma per la scarsa qualità dell’esca.
A chi chiedeva «Europa», è stato risposto «Italia». A chi chiedeva candidati di prestigio son stati offerti leader ineleggibili, o imputati in patria e all’estero, o generali in cerca d’altre vite. A chi chiedeva benessere son state proposte elemosine. A chi chiedeva sicurezze, incertezze.
In piazza, la Storia insegna, ci vanno i Rivoluzionari, non i Conservatori. I Conservatori tramano magari contro, ma in silenzio e di nascosto, nel chiuso delle loro case. E veder vuote tanto le piazze come le urne alimenta il sospetto che al mare ci siano andati proprio i Conservatori: quei molti rifiutatisi di riconoscersi nei non limpidissimi trascorsi del partito di Tajani; quei tanti non direttamente beneficiati dalla giostra multipoltrone dell’esclusivo circolo svizzero-emiliano; quei tantissimi che ancora si domandano come si possa sperare di attrarre i moderati non con la moderazione ma con l’esagitazione, scannandosi ed insultandosi a vicenda come i polli di Renzo (al singolare), incapaci persino di contare fino al 7,2% (3,8%+3,4%) ma pronti a convincere il mondo di poter come niente toccar la vetta del 51%.
E non con i mezzi della buona politica. Con quelli della magia.
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