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Non solo in Francia, quei mal di pancia

Non basta l’inferno della banlieue per spiegare quell’inattesa corsa verso il precipizio in cui la Francia ha deliberatamente scelto di impegnarsi. 

Non basta. Perché le medesime spinte suicide paiono oggi animare gli Stati Uniti d’America, figli anch’essi di quel medesimo pensiero illuminista che segnò in Francia la nascita dell’Età Contemporanea.

Il mondo è alla vigilia di grandi cambiamenti, come lascia intendere il crescente scalpitare di Paesi un tempo invisibili, dalla Russia all’India, alla Cina. 

Un ribollire non sempre sommesso smuove l’intero Occidente, dalla Sicilia alla Svezia, dalla California al Giappone.

Alla radice del mutamento c’è la fine, nel mondo occidentale, di quella che è stata definita l’«Età Industriale», figlia di quel fulmineo cambio di passo del mondo che fu la Rivoluzione dell’Ottantanove, e da essa storicamente inscindibile. 

Monarchie ed imperi non han mai sentito il bisogno di dar vita ad una grande industria. Han sempre vissuto di rendite, piuttosto che di profitti. Le rendite della terra coltivate dalla gleba. O quelle del gas, del petrolio, dell’oro, dei diamanti, con cui sopravvive l’attuale Confederazione Russa. 

Ma una repubblica fondata sui diritti deve offrire a chiunque la possibilità (se non la certezza) di potersi arricchire. Indipendentemente dai favori della Corte o dalla più o meno fortunata nascita. 

La grande invenzione che diede il via alla Rivoluzione Industriale fu l’idea di scomporre i processi produttivi complessi in una serie di processi lavorativi più semplici. 

Se costruire un tavolo richiedeva all’artigiano molteplici competenze, dalla progettazione al disegno, dalla lavorazione di ogni singolo pezzo fino all’assemblaggio e alla laccatura, nell’industria otto-novecentesca ogni singola lavorazione era invece affidata ad un differente operaio, incaricato di un solo semplicissimo compito: piantare un chiodo o levigare un piano, sagomare un pezzo o lucidarlo. 

Gli effetti (desiderati e indesiderati) di questo elementare cambiamento furono planetari. 

Se per formare un abile artigiano non bastava spesso un’intera vita, per far sì che un analfabeta imparasse ad avvitare un bullone era sufficiente un minuto. E così fu per le donne e per i bambini, largamente impiegati perché a minor paga. 


Di conseguenza, mentre per moltiplicare la produzione di un bene prodotto col modo artigianale sarebbero occorsi decenni, col metodo industriale la cosa divenne semplice e veloce: non c’era che da moltiplicare la superficie del capannone, e con essa il numero delle macchine e la quantità di addetti. 

Molti furono coloro che abbandonarono le incertezze e i disagi della campagna di allora, in cambio di un posto in fabbrica. Guadagno risicato, ma sicuro. Fatica sì, ma al chiuso e non all’aperto. Orari certi e niente sorprese stagionali. 

L’industria crebbe presto a dismisura, ma pochi ebbero modo di accorgersene. 

Fino a che le sole fonti di energia furono i corsi d’acqua ed il vento, le fabbriche si insediarono là dove acqua e vento potevano muovere le macchine. Gli operai vivevano al di fuori dai centri abitati, accanto allo stabilimento, dove nessuno poteva vederli; i padroni stavano invece nelle città: moderatamente popolate, eleganti, pulite, sicure, elitarie.

Tutto cambiò con la scoperta del vapore. 

La nuova macchina vide i natali in Inghilterra, sviluppata da James Watt tra il 1800 e il 1830. Non a caso, ma per far fronte ad un’urgente necessità.

Se è vero infatti che una cartiera o un cotonificio possono facilmente attingere energia – seppur limitata – da un ruscello o dalle pale d’un mulino, la stessa cosa non è possibile per le miniere, forzatamente inamovibili e tuttavia bisognose di forze sufficienti per movimentare il minerale e pompare all’esterno l’acqua dei pozzi più profondi. 

La macchina a vapore, nata per le miniere ma presto applicata all’industria, liberò la fabbrica dai ruscelli e dal vento e la spinse fin dentro le città, dove era più facile reperire grandi quantità di mano d’opera a basso costo. 

Le città, un tempo chiuse da alte mura e riservate a pochi, divennero una possente calamita in grado di attrarre milioni di nuovi operai in fuga dal contado e presto relegati nelle nascenti periferie, sporche, affollate e rese malsane dal fumo dei vicini stabilimenti, sempre più numerosi e più grandi. 


Era nato l’Urbanesimo. Quel mutamento storico che, sul finire dell’Ottocento, vide le grandi città moltiplicare oltre misura la loro popolazione, ed accanto ai vecchi centri nascerne persino di nuovi. 

Le difficoltà  di integrazione dei nuovi inurbati, poco alfabetizzati e ancora schiavi delle tradizioni contadine, non furono comunque fonte di particolari problemi: i padroni occupavano come sempre il centro storico delle antiche città, gli operai la cintura urbana, fuori dalle mura, con orari che lasciavan loro poco tempo per bighellonare in giro. 

L’energia del vapore, al quale presto si aggiunsero il petrolio e l’elettricità, eliminò ogni limite fisico allo sviluppo della fabbrica. 

Le industrie crebbero senza sosta. Decine di migliaia di operai lavoravano senza orario gomito a gomito sotto un medesimo capannone, vivendo la medesima vita. Nacquero le prime rivendicazioni comuni e Carlo Marx vide per primo nelle grandi masse operaie i germi di una vera e propria nuova classe sociale, ben distinta da clero, aristocrazia e borghesia, a cui diede il nome di «proletariato». Gli operai non appartenevano alla plebe, perché non vivevano elemosinando la roba altrui, ma neppure alla borghesia, perché privi delle libertà e dei diritti da quella conquistati nell’Ottantanove. Erano dunque «proletari»: servi no, padroni sì, ma di nient’altro che della loro prole. Liberi sì, ma solo di lasciare la fabbrica e tornare alla campagna, se solo l’avessero voluto. Libertà di cui pochi, pochissimi, approfittarono.

I soli limiti fisici che si opponevano alla crescita infinita della produzione furono le dimensioni dei mercati d’acquisto e dei mercati di consumo. 

I mercati d’acquisto erano rappresentati da quei Paesi dove l’industriale si riforniva delle materie prime necessarie alla produzione. Mercati non infiniti. E non sempre amici della Nazione dove egli operava. 

I mercati di consumo erano quelli dove il prodotto industriale poteva essere venduto, meglio se in esclusiva. Neanche questi mercati erano infiniti, e non tutti potevano esser considerati amici. 

Due grandi guerre sconvolsero il Novecento. 

La prima fu una guerra coloniale, volta ad assicurarsi il controllo del maggior numero possibile di Paesi produttori di materie prime, così da acquisirle al minor prezzo possibile e sottrarle ai produttori concorrenti (espansione e controllo dei mercati d’acquisto). 

La seconda fu una guerra imperialista, tesa ad attrarre nella propria area, sottomettendoli senza impoverirli, una quantità di Paesi amici sufficientemente ampia da poter assorbire un sempre maggior numero di prodotti, a spese di quelli proposti dalle industrie dei Paesi concorrenti (espansione e controllo dei mercati di consumo). 

L’età industriale si spegne lentamente negli Stati Uniti intorno agli anni Novanta del secolo scorso. In Europa è serenamente defunta al principio del Terzo Millennio. In Cina ha appena raggiunto la piena maturità. In Africa balbetta adesso nella prima infanzia, confinata in gran parte alla sola produzione tessile. 

La fine dell’Età Industriale non significa ovviamente la fine dell’industria. La fabbrica ancora esiste e continuerà ad esistere. Ma non è più in grado di occupare gli operai generici: quelli a formazione zero. 

Là dove un tempo mille operai avvitavano manualmente milioni di bulloni, oggi c’è una macchina che lo fa. E, a differenza della chiave inglese, nessuno affiderebbe un’avvitatrice da decine di migliaia di dollari ad un operatore che abbia qualcosa in meno di un diploma tecnico ed un’approfondita conoscenza del costoso macchinario.

La fabbrica esiste ancora, certo. Ma i pochi che ci lavorano hanno una preparazione specifica e svolgono compiti assai differenti dagli operai di una volta. Tanto da poter affermare che, se pure esiste ancor oggi l’«operaio», non esiste più una «classe operaia», ossia un proletariato accomunato dal fatto di compiere a migliaia quei medesimi gesti nel medesimo tempo, nel medesimo luogo e per la medesima paga. Quando i sogni e le esigenze di ciascuno erano i sogni e le esigenze di tutti. E quei tutti intuirono che la lotta per migliorarsi sarebbe stata più facile ed efficace se condotta non individualmente, ma insieme.  

* * * * *

Con la fine dell’età industriale, e la conseguente scomparsa della classe operaia, la geografia e la demografia delle grandi città ha subito profondi cambiaenti. 

Il centro storico, degradato dai fumi e dal frastuono del traffico, preda del turismo dell’ultim’ora, è in fase di progressivo abbandonato da parte dei ceti alti, che han trovato miglior rifugio nei più salubri e vigilati quartieri sorti poco oltre la cinta urbana. 

I bassifondi di un tempo, ancor più degradati e abbandonati da tanti ex operai evolutisi in padroncini, o richiamati alla campagna dalla meccanizzazione dell’agricoltura, son stati in parte ripopolati dalla criminalità più spicciola, che trova facile alloggio nell’occupazione abusiva di quegli stabili che nessuno più cura o vuole abitare, e con essa la moltitudine non integrata (e difficilmente integrabile) di un’immigrazione senza controllo e senza speranza, che facilmente si adatta a vivere sotto qualsiasi spazio coperto che anche lontanamente somigli ad un’abitazione. 

La presenza migratoria è oggi particolarmente influente e determinante in Francia, dove gran parte dei nuovi arrivati proviene dalle ex colonie d'oltremare, dunque con documenti in regola che danno loro pieno diritto di entrare, spostarsi e stabilirsi sul suolo continentale. Molti sono i giovani di seconda o terza generazione saldamente legati alle tradizioni e alla religione di provenienza, poco o nulla motivati a frequentare una scuola che considerano culturalmente estranea e non di rado portatori di antico quanto immotivato rancore nei confronti del Paese (ex colonizzatore) nel quale senza troppo entusiasmo vivono.  

Resta una questione fondamentale. Se i nuovi venuti dalle ex colonie hanno lentamente sostituito gli inurbati della Rivoluzione Industriale, nella stessa banlieue e nei medesimi tuguri, in che modo possono essi rappresentare oggi un problema, più di quanto non lo fossero le centinaia di migliaia di operai tra Ottocento e Novecento?

La risposta sta proprio nella fine dell’età industriale. Nell’impossibilità (o incapacità) di offrire un’occupazione a formazione zero a chi non sa fare nulla. Talvolta neppure scrivere, leggere, comprendere, parlare. 

Non ci sono più bulloni da stringere, né tubi da piegare, né strade non lastricate che costringano i signori a farsi lucidar gli stivali ogni cento metri percorsi tra il fango. 

Occorre inventarsi nuove occupazioni che non richiedano alcuna specifica formazione.

Il buon governante deve saper muovere anche i pedoni, non solo gli alfieri, i cavalli o la regina. È vero che il pedone è, fra tutti i pezzi, quello più limitato nei movimenti, ma è anche il più numeroso ed il primo nella fila. Se cedono i pedoni, è a rischio il re. E l’intera partita.

* * * * *

Occorrono nuove risposte.

Se volessimo oggi affibbiare un giusto aggettivo a quei giovani e a quei vecchi costretti a vivere i loro anni nell’attuale Occidente, nella Francia di Le Pen come negli USA di Trump, nell’Italia dell’Ortaggio come nella Germania del dopo Merkel, il più preciso tra gli attributi sarebbe quello di «disorientati». 

Non li orienta più la politica, non li orienta la scuola, non li orienta l’informazione, non li orienta la limitata capacità di leggere e percepire il tempo e lo spazio in cui vivono.  

Il generale disorientamento non riguarda solo alcuni ceti sociali o classi di età, ma chiunque. 

È disorientato il ceto alto, tacitamente invidiato ma pubblicamente condannato se visto alla guida di un’auto di prestigio o con l’orologio di lusso al poso. 

Ma lo è anche il ceto medio, finalmente in grado, districandosi tra B&B e low-cost, di mettere un piede nel mondo, ma solo per scoprirsi più ignorante di prima, convinto com’è d’esser stato a Times Square anziché a Trafalgar.

È disorientato il ceto basso, convinto che la grande città sia ancora il luogo più adatto dove far fortuna, che però insegue nelle sale scommesse, nei luoghi dello spaccio o rubacchiando per strada, incapace com’è di costruirsela da sé 

Sono disorientati i vecchi, che vedono sbriciolarsi un mondo sotto i loro occhi, e tuttavia curiosi di sapere come andrà a finire. 

Sono disorientati gli adulti, impegnati in occupazioni che mutano continuamente luogo, forma e sostanza, con nuove competenze che nascono ed altre che muoiono, e sette od otto «generi» differenti tra i quali scegliere un compagno/a/ə di vita. 

Sono disperati i giovani: treni depredati del binario, astronavi senza gravità, dai quali si pretende che trovino la loro strada in un mondo ormai privo di strade, immersi in un vuoto cosmico abitato più da buchi neri che da stelle splendenti. 

Esiste una via d’uscita?

Sì, esiste una via d’uscita.

Muovere i pedoni. Ricreare, in forme diverse, quella possibilità di inserimento lavorativo a formazione zero che per due secoli ha consentito a milioni di proletari di vivere una vita misera, ma evidentemente migliore di quella sui campi, presto svuotatisi a favore della fabbrica.   

Esistono Paesi dove un numero crescente di persone trova occupazione nei servizi di guardiania e di vigilanza. 

Un guardiano non necessita di alcuna particolare formazione. Neppure è necessario che conosca la lingua. Produce sicurezza, dunque ricchezza.

In quasi tutti gli Stati USA la raccolta dei rifiuti non viene differenziata a monte, ma a valle. È conferita indistintamente in grandi capannoni e lì accuratamente selezionata. Si risparmia sui costi di raccolta. Si guadagna grazie a una differenziazione al 100%. 

Anche ripulire le strade ed i muri imbrattati delle città crea ricchezza, perché le rende turisticamente più attraenti. Allo stesso modo è utile e preziosa la cura degli spazi verdi.

Umili occupazioni, si dirà. Ma comunque un punto di partenza. E un valido strumento di integrazione. Perché solo chi sa spendersi a favore di una comunità finisce col sentirsi parte integrante di essa.

Non servono elemosine, bonus o redditi di cittadinanza. I soldi (pochi) girano a lungo nelle tasche dei fessi, per fermarsi infine (molti) nelle tasche dei furbi. Suscitano appetiti, piuttosto che saziarli. 

Serve piuttosto distribuire compiti e dignità: denaro guadagnato, non regalato.

«Non such a thing as a free lunch» (non esiste qualcosa che possa somigliare ad un pranzo gratis), era il motto con cui gli Americani, negli anni Trenta, accoglievano chi sbarcava per la prima volta nel Nuovo Mondo. Pronti com’erano ad offrire ai nuovi arrivati un numero infinito di opportunità, ma nessun regalo. 

Chi oggi si illude che sia possibile costruire il futuro di una nazione comprandone il consenso con esenzioni fiscali, favori agli amici, regali a pioggia, convinto forse di conquistarsene l’affetto, ha finito invece per stimolarne la disaffezione. Come l’astensione alle urne plasticamente quantifica e dimostra. 

Un popolo diventa adulto quando viene addestrato a vivere del suo. Non della paghetta del papà.    

Servono maestri. Potranno mai rivelarsi tali i Trump, le Le Pen, i Bardella, le Meloni, gli Orban, i Salvini, gli Scholz...?

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