C’era in primo luogo Marine Le Pen, erede di un governo nazista che ha scritto a Vichy alcune pagine tra le peggiori della Storia di Francia, a cui sognava di aggiungere nuovi oscuri capitoli.
C’era Melanchon, da troppi oggi acclamato come trionfatore, ma di fatto impedito ad incassare la vincita, conquistata non dal suo partito, ma da un disordinato mosaico che spazia dai saccheggiatori di piazza fino a quei socialisti che si riconoscono nell’irreprensibile figura dell’ex presidente Hollande.
C’era lo stesso Macron, costretto ad imporre ai Francesi crescenti sacrifici – a fronte del più alto debito pubblico d’Europa – ma evidentemente privo di quel carisma e di quel favore popolare che in tempi assai peggiori consentirono ad altri di chiedere alla propria gente lacrime, sudore e sangue. Ottenendoli.
Ciascuno di costoro ha a suo modo sbagliato. Ma non la Francia. Che, pur impossibilitata ad incoronare un immeritevole con un «sì», non ha esitato a dar voce a quelle urne che hanno emesso un così chiaro quanto indiscutibile «no!».
Con saggezza e prudenza, la Francia ha saputo fermare la preoccupante avanzata del Rassemblement National e prende tempo, in attesa di individuare un quadro di governo accettabile e condiviso che accompagni il Paese nei tre anni che lo separano dal prossimo voto presidenziale.
Sullo sfondo restano vivissime le problematiche di una nazione per molti aspetti in crisi, stremata dal veloce ripopolamento ad opera di legalissimi immigrati dalle (tante) ex colonie d’oltremare e dal conseguente isolamento delle preesistenti élites, così ben analizzato dall’americano Christopher Lasch nel suo The Revolt of the Elites and the Betrayal of Democracy (1995).
Perché di questo infine si tratta: dell’irrisolta crisi susseguita alla fine dell’età industriale in Occidente ed al crollo della vecchia struttura gerarchica della società, sostituita dalla nuova struttura reticolare imposta dall’evolversi della comunicazione web: quella dell’uno verso uno, piuttosto che dell’uno verso molti.
E quei molti, per quanto oggi più agiati di ieri, proprietari di case e di automobili ma privi di una strada chiara e ben tracciata sulla quale indirizzarsi, mal guidati da élites spodestate e incapaci a dirigere il traffico, son pian piano diventati i sanculotti del Terzo Millennio.
Che essi si dichiarino (impropriamente) di «destra» o di «sinistra», quel che, lungi dal contrapporli, invece li accomuna è una generale insoddisfazione di sé e di tutto quel che li circonda, che non sono più in grado di comprendere. Troppe sono le merci – intellettuali e no – che il Grande Magazzino del mondo offre agli occhi di chi è invece abituato alla bottega del villaggio, e che al cospetto di una così vasta offerta resta disorientato e incerto su cosa sia bene acquistare e cosa no.
Ai moderni sanculotti non mancan certo le culottes: quelle vere, made in Pakistan o in Bangladesh, si trovano in rete a meno di un euro il paio. Mancano le culottes mentali: quella primissima formazione culturale che, sin dalla scuola elementare, proponeva al futuro cittadino un chiaro percorso di vita: quel che andava fatto e quel che no, costringendolo in tal modo ad indossare quei primi indumenti intimi (mentali), uguali per tutti, che avrebbe poi in futuro ricoperto con altri capi di abbigliamento liberamente scelti e più adatti ad esprimere il proprio carattere, il proprio gusto, la propria individualità.
I disorientati sanculotti di oggi chiedono – come tutti – le cose che non hanno: in particolare chiedono «certezza». Certezza dell’oggi e del domani. Solido terreno da cui poter spiccare il salto. Regole certe che consentano in futuro di posizionarsi in un punto ben preciso di quella che era un tempo la «scala sociale», oggi ridottasi a un piatto campo da gioco, neppure tracciato. Un gioco al quale le élites neanche più partecipano, limitandosi ad osservarlo con distacco dalla sommità degli spalti.
In cerca di una guida, i moderni sanculotti cascano spesso tra le braccia dei pifferai. Che si chiamino Le Pen o Melanchon, Trump o Salvini, Putin o Hamas, sventolandone ignari le bandiere.
E il fatto che il piffero sia in così breve tempo passato dalle mani di Le Pen a quelle di Melanchon, non significa che uno di questi abbia «vinto». Ha vinto chi ha saputo osservare con distacco e riconoscere quel piffero, oggi come due settimane fa. Ed è accorso alle urne come non accadeva da oltre quarant’anni. E dopo aver sfilato lo strumento dalle già inumidite labbra di Le Pen, è adesso pronto a sottrarlo da quelle di Melanchon che, brandendo un’immaginaria «vittoria», già pesta i piedi e detta inaccettabili condizioni.
Ha vinto la Francia. Per fortuna Ma la vittoria sarà vera e duratura solo se chi sarà presto chiamato a guidarla non si limiterà ad impadronirsi del magico strumento, variando magari qualche nota, ma ci salirà sopra con entrambi i piedi e lo distruggerà. Definitivamente.
Così che gli uomini tornino a nutrirsi del pensiero nato all’interno della propria testa, educata allo scopo, anziché degli ingannevoli suoni che in troppi, incessantemente, tentano di inculcarvi dall’esterno.
Commenti
Posta un commento