Implorare la grazia in processione pare non sia più come un tempo roba da preti e da beghine. Pare che adesso sia una cosa «de sinistra».
Non di quella vintage, s’intende, che intonava in piazza «il Vaticano brucerà!», ma di quella che ne usurpa indegnamente il nome: che brama elemosine di Stato e disdegna quel lavoro che della vera sinistra fu insieme il vessillo e il motivo stesso della propria esistenza.
Il bottino è invitante. Portar via anche soltanto un quarto di elettori dalla carcassa piddina è un facile azzardo che fa gola a troppi, all’interno come all’esterno del partito.
Così, come già a Napoli uno scoppiettante deluca emulo del Vesuvio, un conte servo della plebe disanimerà stamattina le strade di Roma con una processione travestita da manifestazione che, con gli occhi levati al Cielo, chiederà non la pioggia (gentilmente offerta da un governo diversamente onesto), non la liberazione dalla peste, ma la Pace!
E mica la chiederà a chi quella pace se l’è rubata, sfilandogliela da sotto i piedi.
No: la implorerà a noi, quassù, dove vige la pace eterna, sperando di riceverne in dono almeno una fettina.
Non avranno in cambio che celesti pernacchie. La pace stava già tra loro: se la riprendano, se ne hanno la forza, la voglia e il coraggio.
Negli anni Settanta le piazze erano piene di giovani ugualmente desiderosi di pace, ma non l’attendevano certo dal Cielo o da improbabili negoziatori. Il loro grido era «Fuori gli Americani dal Vietnam». Sentiremo questa mattina intimare, con la medesima foga, «Fuori la Russia dall’Ucraina»?
Perché questa è la sola legittima quanto doverosa richiesta e, insieme, l’unica possibile soluzione: chi rompe, paghi. E se non vuol pagare, facciamogliela pagare.
E invece no. Vedremo in piazza un Conte senza l’oste, o meglio senza l’hostis, come i Latini chiamavano il nemico, alla testa di una scompaginata ciurma che mentre griderà «pace» penserà piuttosto «resa»: che calino le brache davanti al più forte, gli aggrediti, e plachino per noi la fame dell'orso feroce risvegliatosi dal letargo. Illudendosi che basti la piccola Ucraina a saziarne gli appetiti, mentre non ne è che il piccolo antipasto.
Se vuoi la pace, preparati a combattere. Non è soltanto un elegante motto latino, ma una collaudata verità. Se non lo fosse, il nostro Capo non avrebbe dato gli artigli alla tigre, il veleno ai serpenti, il pungiglione alle api, gli aculei al porcospino, le zanne al cinghiale, le corna al toro.
Se vuoi la pace, datti da fare per costruire un vero Stato federale europeo, che possa armarsi e difendersi, dotandosi di una politica estera e di una difesa comune. Unica speranza di sopravvivenza di un’Unione sempre più piccola e ininfluente nel contesto mondiale, priva di poteri e tenuta insieme da trattati commerciali che altro non possono garantire che la falsa pace del commerciante: quella di chi, al di qua del bancone, ha interesse a tenersi amici tutti i clienti, pur di sopravvivere e prosperare; e di chi, al di là del bancone, ha interesse a tenersi amico il negoziante, pur di strappare qualche piccolo sconto.
Può ancora funzionare? Sì, finché sei una delle tante botteghe nel quartiere. Non più, se ti spuntano intorno due o tre grossi supermercati pronti a schiacciarti. E non sarà sufficiente consorziare le vecchie botteghe per sconfiggerli: occorrerà dar vita a un supermercato più bello e più grande.
Si parlerà di questo, stamattina, tra i cinghiali, le lupe e i gabbiani di Roma?
O ci si lagnerà incolpando l'Ucraina, la Nato, l'Unione, l'ONU, Biden e l'universo intero dell'irreparabile disastro delle luminarie spente, del carburante a caro prezzo e del riscaldamento con un grado in meno?
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