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Quando l'Unione non fa più la forza

C’è al mondo qualcosa che faccia scompisciare noi alati (con conseguenti piogge acide sul pianeta) più di quegli animali da televisione che ininterrottamente si affacciano sugli schermi con la bocca piena della parola «Europa»?

Parlano dell’Europa come se fosse uno Stato e non un continente: — L'Europa dovrebbe...; — L'Europa non fa...; — La colpa è dell'Europa... 
Dicono «Europa», ma intendono l’Unione Europea: non uno Stato, ma un insieme di trattati a sfondo prevalentemente economico che legano fra essi alcuni Paesi europei (e non: come l'asiatico Cipro). 
Quand’essa è d’ostacolo ai loro immediati interessi, l’«Europa» è troppo invasiva della sacra sovranità nazionale. Quando è invece funzionale ai medesimi interessi, l’«Europa» fa troppo poco: dovrebbe aiutare di più i «cittadini», ristorare le perdite, difendere i confini e – possibilmente – sanare le piaghe e resuscitare i morti. 
La realtà – che nessuno vuole o sa vedere – è che l’Unione Europea, in quanto tale, NON è uno Stato. Così come non lo è l’altra unione di Stati di cui l’Italia fa parte: l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Quella che coloro che chiamano «Europa» l’Unione, dovrebbero per coerenza chiamare «Mondo».  
Entrambe le unioni non possiedono alcuno dei poteri che competono a uno Stato: non hanno potere legislativo, né esecutivo, né giudiziario. Non possono scrivere «leggi» e tantomeno imporle, ma solo «direttive» e regolamenti (a solo uso interno), destinate a diventare esecutive solo quando (e se) gli organi legislativi di ciascuno degli Stati membri le convertono in leggi nazionali e le promulgano. 
Si tratta di una procedura lenta e farraginosa che presuppone due requisiti di non poco conto: tempo a disposizione e unanimità di intenti. 
Il tempo, ricchezza ampiamente disponibile in periodi di pace, rischia tuttavia di rivelarsi insufficiente nell'urgenza di catastrofi belliche, sanitarie, naturali, migratorie o umanitarie, sempre più frequenti e capaci di minacciare la qualità della vita (se non la vita stessa) sul continente. 
L’unanimità di intenti, che non esiste in natura, va anch’essa coltivata attraverso la mediazione e il dialogo e comporta lunghe procedure che tutto sono, meno che democratiche: se è vero che sostanza della democrazia è il prevalere del pensiero della maggioranza su quello delle minoranze, delle cui istanze occorre certamente tener conto, senza tuttavia trasformarle in un sostanziale diritto di veto. 
L’affacciarsi sulla scena politica di un nemico possentemente armato che rivolge quotidiane minacce contro un’Unione Europea di fatto disarmata, scatenando l’inferno alle sue porte, ha reso evidente a chiunque l’insufficienza di una costruzione politica come la UE, priva di alcun potere di tipo statuale. 
Con la Brexit, inoltre, l’Unione ha perso i due terzi del suo potenziale bellico: nel dettaglio una buona metà dell’arsenale nucleare, una flotta tra le più grandi al mondo, la rete di basi militari più estesa dopo quella NATO. Potenziale tuttavia solamente teorico: perché un vero esercito europeo, prima ancora che di armi, di uomini e di basi, necessita di uno standard per munizioni e armamenti e di una linea di comando comune e condivisa. Ma una siffatta unica linea di comando necessita a sua volta di una sola politica di difesa, che forzatamente presuppone una comune politica estera. La quale non può ovviamente essere affidata al lento, contorto e antidemocratico meccanismo dell’unanimità, ma a un Parlamento con pieni poteri legislativi e a un Ministero con pieni poteri esecutivi. Occorre, in breve, uno Stato europeo. 
Questo nuovo Stato europeo, se si intendono salvaguardare le specificità e la storia dei singoli Stati membri (un quarto dei quali, giova ricordarlo, non è costituito da repubbliche ma da monarchie, particolarmente gelose della tradizione) non può che essere uno Stato federale: ossia un’entità statuale con sovranità limitata alla fiscalità, all'economia, alla politica estera, alla difesa. Con una moneta unica ed un esercito federale che consentirebbe, tra l’altro, di superare le limitazioni di Italia e Germania, per lungo tempo soggette ai trattati di pace del 1947. 
Accertatane la necessità, resta tuttavia una domanda: come si costruisce nei fatti uno Stato federale europeo?
Nelle intenzioni dei fondatori della prima Comunità del carbone e dell'acciaio (CECA, 1951), poi Comunità Economica Europea (CEE, 1957), quindi Comunità Europea (CE, 1965) e infine UE (1993), il processo integrativo, seppure lento, avrebbe prima o poi condotto all'unificazione politica in forma pienamente federale. 
Così non è stato, vuoi per la contemporanea presenza di Stati membri fortemente strutturati come le monarchie ed altri di più recente acquisizione, vuoi per la comparsa di nuove potenze economiche sullo scacchiere internazionale, vuoi per abbandoni importanti come quello britannico, vuoi per l’obiettivo non ancora raggiunto di una moneta comune e di confini comuni, che fa dell'Eurozona e dell’area Schengen due entità territorialmente assai differenti dalla UE.
In diversi Paesi, come in Italia, non esiste poi una sola forza politica dichiaratamente eurofederalista, e quei pochi non ferocemente contrari alla Federazione Europea si nascondono dietro la foglia di fico di un generico «europeismo». Interpellati, affermano di battersi per «un’altra Europa». Richiesti di illustrare come essi immaginino questa altra Europa, la risposta è: «un’Europa diversa da quella attuale». Pressati affinché ne precisino le caratteristiche, voltano le spalle ed evitano la risposta. Che neppure essi posseggono.  
C'è una sola certezza: le strade verso una Federazione Europea con poteri statuali non possono essere che due: a) attendere che il processo avviato dai De Gasperi e dai Mitterrand prosegua il lento ma sicuro cammino di progressiva integrazione, trasformando per passi successivi la UE in FE; b) lasciare che la UE prosegua per la propria strada e dare contemporaneamente vita a una FE che l’accompagni lungo il medesimo tragitto. Una FE della quale non facciano necessariamente parte tutti gli Stati UE, ma solo quelli che intendano aderirvi ed abbiano sufficiente forza e convinzione per farlo. 
Non si tratterebbe di una sorta di vagone UE di prima classe, ma di qualcosa di completamente diverso: uno Stato federale europeo con una politica estera, una difesa, un’economia e una moneta comune, aperto anche ad altri Stati europei non comunitari (come la Norvegia o la Svizzera, membri Schengen ma non ancora UE) che interagisca con la UE come se ne fosse il 28° Stato. Due binari paralleli dove UE e FE procedano fraternamente affiancate ma con obiettivi diversi: luogo di discussione, elaborazione e proposta la prima (non diversamente dal ruolo svolto oggi in ambito planetario dall'ONU), Stato a tutti gli effetti la seconda. 
Se poi il processo integrativo immaginato dai padri fondatori dovesse accelerare la corsa e le due entità parallele UE ed FE fondersi in un solo organismo statuale, ben venga. 
Ma, nell’attesa, sapere di poter contare già da adesso su una FE quantitativamente più limitata ma qualitativamente più agile, libera ed efficiente, finalmente democratica, non sarebbe certo un ennesimo inutile intralcio burocratico, ma al contrario un nuovo formidabile strumento per accelerare lo sviluppo e la sicurezza del vostro amatissimo continente.  

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