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Guardarsi allo specchio

Che sia infine giunto, anche per gli Italiani, il momento di guardarsi allo specchio e darsi un voto in pagella? 
I sessanta milioni di abitanti che popolano questa luminosa lingua di terra, protesa tra due mari dalle Alpi al Sahara, non possono esser tutti copie conformi di quell’infilata di cacasottisti che ora dopo ora  s’affaccia oltre lo schermo televisivo, tra volti illuminati dal rublo ed altri rinvigoriti dal dollaro, animati da un vile quanto immotivato rancore verso quell’Europa che li mantiene in vita pur se indebitati fino al collo, forse astutamente determinati a disonorare l’impegno per stringerne di nuovi con altri: trafficanti di idee che nei giorni pari trovi in piazza inneggiando al terrorismo stragista e, in quelli dispari, sempre sulla medesima piazza, a portar santi in processione per invocare «pace» e «dialogo», guardandosi bene dallo specificare dove, come, tra chi, con chi e perché.

Sono davvero questi gli eredi della grandezza di Roma? Delle beltà del Rinascimento? Degli eroismi del Risorgimento? Dell’intrepido coraggio della Resistenza? Degli illuminati artefici ieri della Repubblica e in un (si spera vicino) domani dello Stato Federale Europeo? È questo quel popolo di santi, poeti e navigatori la cui fama è stata incisa nella pietra?

Per potersi guardare allo specchio, occorre come prima cosa avercerlo, quello specchio. 

Tanti erano un tempo gli specchi dover poter riflettere la propria immagine e tentar di comprendere di qual pasta un popolo sia fatto. Primi fra gli altri una libera stampa, una grande letteratura, un cinema che ha fatto scuola, una televisione che istruiva ed univa, una Chiesa più attenta all’aldiquà che all’aldilà. 

Poche chiacchiere e tanto pensiero. Nani sulle spalle dei giganti, gli Italiani di ieri. Nani sulle spalle dei nani, gli Italiani di oggi. Incapaci, per ostentata viltà e debolezza, di raccogliere se non la forza almeno gli insegnamenti di chi, in un recentissimo passato, ha saputo colmare di ricchezza e d’onore quel meraviglioso quanto arlecchinesco Paese, disordinato e imperfetto mosaico d’umori e di colori.  

* * * * * 

Nubi temporalesche si addensano sulle cime del mondo, come di tanto in tanto la Storia fa sì che accada. Ma è proprio quando cala il sipario e la sala si fa buia, che un piccolo raggio di luce riesce talvolta ad illuminare l’intero teatro. 
Oggi che tanta Italia si mostra sempre più spenta, impaurita, disorientata, finita, circondata da conflitti che nessuno più sa o intende combattere, son bastate poche limpide e adamantine parole pronunciate da Sergio Mattarella per ricordarci che esistono ancora degli uomini, in questo Paese. E che stanno mille metri più in alto di quel coro di ragli, ruggiti, belati e latrati che, mille metri più in basso, invano si sforza di occultarne e confonderne la voce. 

È tempo di dare un volto alle parole ed un voto alle persone. Di ricominciare a distinguere il grano dal loglio, separandoli ed etichettandoli con il loro vero nome.

Non è difficile. Ci son stati donati cinque sensi, e quando l’occhio non basta a riconoscer l’immondizia, il naso la percepisce e le orecchie ne colgono il respiro. Per fugare ogni dubbio, poi, la si può sempre toccar con mano, e portar le dita alla bocca per assaggiarla. 

Occorre una testa capace di elaborare le informazioni che i sensi trasmettono, certamente. Attenta ai mille tranelli che i malvagi ordiscono per tentar di alterarle: si truccano, si mascherano, si armocromizzano; parlano con lingua di serpente; nascondono il puzzo sotto i profumi della falsa gloria o del denaro; ricoprono di morbidi panni la ruvida pelle ed inzuccherano ogni gesto o discorso. Ma la nutella resta nutella. E quell’altra che solo nell’aspetto (ma non nel gusto) tanto le somiglia, rimane quel che realmente è. 

Gli uomini ancora esistono. Pochi, certamente. Pochi perché, proprio in quanto tali, non esitano a passar la mano e ad andarsene, quando nessuno sa riconoscerne e apprezzarne il valore.

Esisteva un Mario Draghi, in Italia. Messo all’angolo dall’immotivata invidia di un partitucolo in via d’estinzione, non ha indugiato un minuto nel lasciarli a cuocere nel loro insipido brodo. E con miglior profitto dedicarsi ad altro e ad altri. 

Ma anche al di sotto della stratosfera è possibile trovare, fra tanto loglio (buono per gli animali), qualche chicco di grano (buono per gli umani). 

Perfino dalla buia oscurità che perennemente avvolge un governo ben al di sotto del livello del mare, trapela di tanto in tanto qualche debole raggio di luce.

Non parliamo (solo) del/della Presidente del Consiglio (voto: 5; 2 per l’agire, 3 per la furbizia), più intenta ad interpretare un non più esistente ruolo di «capo del Governo» (in vigore dal 1922 al 1943) che non a coordinare i suoi scoordinati ministri. 

Bandiera alla rovescia, il/la ministro/a si agita oltre misura solo quando il vento non c’è (simulandolo) ma s’acquatta come un panno steso quando invece la tempesta infuria. Si atteggia a capo di Stato, ma non lo è. Lavora alacremente, però, per diventarlo. S’è inventata il «premierato» e gode nel sentirsi chiamare «Premier»: carica al momento non contemplata dalla Costituzione Italiana. Così come non lo è più quell’altra (da qualche mese resuscitata a Washington, ma non ancora a Piazza Venezia) di «duce». Più romanamente: «Dux».

Un voto ben oltre la sufficienza lo meritano invece Giancarlo Giorgetti, (voto: 9), ministro dell'Economia e delle Finanze, e Guido Crosetto (voto: 8), ministro della Difesa: forse i soli, fra tanti inutili quanto incompetenti ministri, ad onorare il giuramento che li vorrebbe al servizio della nazione, piuttosto che di un partito. Per amministrarla, non per comandarla. 

A dispetto del vezzeggiativo che ne addolcisce i nomi, Giorgetti si è mostrato fermo e irremovibile nella difesa del pubblico bilancio, minacciato da tanti morsacchiottisti ansiosi di sbranarlo per poi darlo (letteralmente ed elettoralmente) in pasto ai porci. Opponendosi ad ogni ripetuto tentativo d’effrazione come può farlo una robusta cassaforte dell’Ottocento, silenziosa e con nove serrature. Come dev’esserlo un ottimo ed efficiente ministro dell’Economia e delle Finanze.

Ottima prova di sé ha ugualmente dato al mondo il chiaroveggente Crosetto. Silenzioso anch’egli, come compete ad ogni persona di valore, ha interpretato al meglio il proprio ruolo di solida e antica fortificazione militare. Intenta a difendere l’intero Paese e non soltanto il poco personale di guardia che tra quelle mura presta servizio.

Apprezzabile anche un Antonio Tajani (voto: 7), ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, premiato nelle urne sebbene agissse per defunta interposta persona. Forse perché il più vicino, insieme al buon maratoneta Maurizio Lupi, agli ideali di una vera destra conservatrice e liberale, piuttosto che rivoluzionaria e neofascista. Rispettabilissima la prima, scatarrabile in un occhio la seconda. 

Inutile attardarsi sull’inoperato di un ministro teoricamente dell’Interno (voto: 2) ma in realtà dell’Esterno, impegnato com’è ad attribuire ad altri, piuttosto che a se stesso, il degrado di un Paese sostanzialmente abbandonato e incustodito, dove chiunque può danneggiare o imbrattare un qualsiasi edificio o altra struttura pubblica, quando non addirittura occuparne gli immobili per poi affittarli, sfruttarli o rivenderseli. O discettare su un ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti (voto: 1) capace sì di parlar d’infrastrutture col dovuto trasporto, ma soltanto a parole. Le stesse con le quali riesce talvolta ad asfaltare l’avversario, ma non le strade. O su un ministro dell’Istruzione e del Merito (voto: 2) perfettamente in linea con il primo assioma della Scuola Italiana: «Qualsiasi ministro dell’Istruzione ha sempre agito e sempre agirà peggio del suo predecessore».

Fuor di Governo, la musica poco cambia. I giornali non si vendono, troppi giornalisti invece sì. Ne nascono persino di già venduti: col giornalista ancora in culla gli si costruisce intorno una testata o una televisione che ne amplifichi la voce. Quella di chi paga, s’intende. Non certo la sua. 

Nulla di meglio sul disordinato fronte della cosiddetta opposizione, mai così disunita e disorientata, più vocata alla (sterile) protesta che alla (fattiva) proposta. Più movimento che partito. Concentrata sul presente, disinteressata del futuro. 

Orfani della classe operaia, scomparsa in Italia con la fine dell’Età Industriale, i sindacati han profittevolmente pensato di poterla sostituire con i pensionati (paganti e fintoscioperanti) e coi professionisti mal pagati, provvidenzialmente ribattezzati «lavoratori» («Medici? No: lavoratori della Sanità! Insegnanti? No: lavoratori della conoscenza!...»). 

I partiti, in caccia d’ancor più ampie platee, han meglio pensato di rubare il mestiere alle Chiese, rimpiazzando gli scomparsi proletari con i «poveri». I quali, però, «classe sociale» non lo sono mai stati e mai lo saranno. Così, dopo la valanga di bonus di cittadinanza e non, la «lotta alla povertà» è diventato un tema non più da congregazione evangelica, ma «de sinistra» (quella stessa che ancora vent’anni fa intonava in piazza: «Il Vaticano brucerà, con dentro il Papa!»). Mostrando di ignorare che mentre la classe operaia soffriva tutta del medesimo male (un sistema produttivo fondato sulle braccia a basso costo, piuttosto che sui cervelli ad alto costo, che di fatto schiavizzava gli addetti incatenandoli ad una macchina, prima ancora che a un padrone), i poveri soffrono invece ciascuno del proprio male: dissimile, quando non opposto, da quello dei propri simili.  

Defraudata della lotta di classe (per prematura scomparsa della classe), ad un’opposizione incapace di proposte non resta che la protesta. Attività che l’accomuna non poco a quei capannelli di anziani pensionati scrutacantieri usi a lamentare, criticare, suggerire, comparare, piuttosto che operare. In un range di considerazioni che va dal nonnesonocapàci al quandoceravamonòicarolei

Una vera opposizione, se davvero intende proporsi come valida alternativa, non ha che da rimboccarsi le maniche e costruirla. Se il cantiere concorrente va a rilento, si sposti qualche metro più in là (possibilmente in direzione del Progresso) e cominci ad erigere il suo, di cantiere. E mostri al mondo con quanta rapidità, con quale efficienza, con qual differente qualità, con quanto risparmio sia in grado di realizzarlo. 

E vedrà i voti scendere magicamente dal cielo e posarsi come uccellini sul filo, stanchi di volare inutilmente in tondo, senza una meta.

O spera forse l’armocromista (voto: 3) che chi non ama il nero sarà inevitabilmente costretto, prima o poi, a convertirsi al rosso? Quasi non esistessero anche il giallo, il verde, l’arancio, il celeste, l’azzurro e mille altre iridescenti sfumature in continuo divenire?

O che un «campo largo», popolato da fiori di mille colori, possa solo per questo attrarre insetti di ogni specie? Inclusi quelli, per natura, tra essi nemici?

Mission impossible

Servono idee. E le idee nascono dalle teste degli uomini. Dunque servono uomini.

Dalle teste degli animali non escono che suoni scomposti di lamento o di rabbia. Segnali di dolore e/o annunci di guerra.

Ed è proprio quando le urla belluine paiono prendere il sopravvento sulle parole, che gli uomini – quei pochi rimasti – dovrebbero cominciare ad interrogarsi. 


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