Seguì una lunga serie di nuove disposizioni e leggi ancor più fascistissime, come la possibilità regalata al Capo del Governo di decretare provvedimenti esecutivi (a sua discrezione) d’urgenza, il diritto di scegliere e nominare dei «podestà» in luogo dei sindaci elettivi, di limitare la libertà di associazione e di stampa…
In quel lontano Natale 1925, in quella puzzolentissima stalla dove non difettavano certo asini e buoi, circondati dai loro stessi escrementi, acclamato non dalle bianche lane dei pastori ma da saccheggiatori e assassini in camicia nera, non stava nascendo il Bambin Gesù, ma il Fascismo. Fraudolentemente spacciato per Salvatore.
Cent’anni dopo, un governo neofascista guidato da una ministra che non disdegna, ogni qual volta le sia possibile, di atteggiarsi a Capo di Stato piuttosto che coordinatrice delle riunioni di consiglio, lavora per riproporre la sua versione 2.0 di quelle antiche, combattute, sconfitte e cancellate leggi. Cambiandone il nome («premierato») ma non la sostanza: trasferire al Governo i poteri del Parlamento e sostituirsi al Quirinale nella guida del Paese.
Un Governo che comandi, insomma. Ossia l’esatto contrario di quanto statuisce il vigente ordinamento costituzionale, che assegna ai ministri – scelti e nominati dal Quirinale – il compito non di comandare, ma di obbedire alle disposizioni del Parlamento (sovrano) e di renderle esecutive. Non certo quello di autopromuoversi capi della Nazione.
Anche il disegno meloniano, non dissimilmente da quello mussoliniano, parte col piede leggero. Non chiede un’immediata (quanto numericamente impossibile) totale riscrittura della Costituzione, ma si limita ad aprire la via con un primo schiaffetto ben assestato: il cosiddetto «premierato», lubrificato da una legge elettorale redatta su misura.
Che l’attuale rosatellum altro non meriti che il cestellum della spazzatura, non v’è persona di senno che non condivida l’idea: una legge elettorale che non consente di scegliere alcunché, né il candidato, né il partito, neppure è degna dell’aggettivo che porta. Ma volerla sostituire con un’altra persino peggiore – ad usum delphini – resta comunque un crimine premeditato.
Tale, tuttavia, è il progetto in atto. Paiono confermarlo non soltanto l’approvazione in prima lettura al Senato del DDL di riforma costituzionale, ma ancor più i crescenti e sistematici attacchi, altrimenti incomprensibili, nei confronti del Quirinale, forse pregustandone un prossimo trasferimento a Palazzo Venezia, con un Capo del Governo in sostituzione di un (di fatto) esautorato Capo dello Stato.
A differenza del Presidente della Repubblica, votato dai Grandi Elettori, la legge in esame prevede che il nuovo Capo del Governo venga invece eletto con suffragio universale.
Tralasciando la preoccupante curva discendente dell’auspicata «universalità» del suffragio, abbondantemente sotto la soglia del 50%, resta il problema della manipolabilità del voto, non soltanto da parte di nazioni ostili ma anche per mano di chi nel Paese ha il pieno controllo dei mezzi di informazione, dalla televisione alla stampa: moderna reincarnazione delle trombe altoparlanti di mussoliniana memoria.
Come ben sottolinea Alberto Lucarelli («Premierato e riforme costituzionali: il mito della governabilità», AIC 2003, n.4), «è evidente che con tale forma di governo, si andrebbero a sottrarre al Presidente della Repubblica i suoi due poteri di controllo più incisivi (nomina del governo e scioglimento delle camere), contrapponendo ad un presidente depotenziato, eletto da un parlamento indebolito, un capo legittimato direttamente dal popolo. Un modo per ridurre a simulacro il Quirinale, trasferendo sul capo del governo i sostanziali poteri di decisione».
E tutto ciò in un quadro di progressivo indebolimento della sovranità del Parlamento, da tempo in atto per mano di questo e dei precedenti governi, sempre pronti a sovrapporsi all’istituzione legislativa abusando della decretazione d’urgenza, o anche attraverso manovre congiunte tra Governo e Parlamento: non sempre poteri «separati», come Costituzione impone, ma di fatto convergenti quando manomessi da quegli esponenti di partito titolari al medesimo tempo di un seggio parlamentare e di un incarico di governo. Ancor peggio se insigniti di posizioni di rilievo all’interno del loro partito. Così che nessuno è in grado di determinare se il loro agire risponda agli interessi degli elettori (come parlamentari), del Paese (come ministri), di una sola parte (come dirigenti di partito), di se stessi (come troppo frequentemente accade).
La riforma del premierato, come proposta dall’attuale maggioranza a trazione neofascista, finirebbe col risolversi – a parere di Lucarelli – in una «tirannia della maggioranza», inamovibile e incontrollabile. Degna celebrazione di un centenario dove la parola «tirannia» elegantemente rimpiazza quella (più screditata) di «dittatura», senza tuttavia mutarne la sostanza.
Il testo costituzionale, nato con la radio a valvole ed oggi oltre le soglie dell’intelligenza artificiale, può certo necessitare di quegli adeguamenti e revisioni che al proprio interno intelligentemente regola e prevede. Purché lo si faccia in vista di un più luminoso futuro, non di un ritorno al più truce passato. In direzione del Progresso (che pure tanti elettori spaventa) piuttosto che del Regresso (che pure tanti elettori conforta e rassicura).
Vista da quassù, dove ancora risplende e brilla, la Costituzione italiana sembra chiedere a gran voce due sole piccole, piccolissime modifiche, ma capaci di avvicinarla ad altri ordinamenti democratici del continente, nella sempre più improrogabile attesa che un giorno confluiscano nella Costituzione condivisa di un solo grande Stato Federale Europeo: 1) una legge elettorale – quale che sia – inserita a pieno titolo nel testo costituzionale, così che nessuno possa pensare di riscriversela a proprio piacimento ogni qual volta le urne cantano; 2) il divieto, nella medesima legislatura, di sedere contemporaneamente in Parlamento, al Governo, in Magistratura: una separazione delle carriere assai più urgente e giustificata di quella oggi pretestuosamente richiesta tra magistrati inquirenti e giudicanti, se davvero si vuole salvaguardare la necessaria separazione e indipendenza tra poteri destinati a controllarsi l’un l’altro, piuttosto che sovrapporsi e confondersi. Con l’obbligo, s’intende, di lasciare i partiti fuori dalla porta. Come Costituzione impone.
Due piccoli aggiustamenti che guardano avanti. Contro quei minacciosi colpi ora alla Carta, ora al Colle, che paiono invece guardare indietro.
Per esser più precisi: a quell’infausta vigilia di un Natale di cento anni fa.

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