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Parole, parole, parole...

Gli uomini di cultura arricchiscono la lingua. Gli ominicchi la impoveriscono. 

Il sogno di ogni letterato è una lingua capace di manifestarsi non soltanto nella ricchezza del vocabolario e della sintassi, ma anche nell’intonazione, nella gestualità. Forse più simile alla musica o al teatro, che non al parlato. 

Il sogno di ogni ignorante è, all’opposto, quello di ridurre al minimo essenziale ogni sonorità necessaria per esprimersi. Il modello a cui egli si ispira è l’asino, che con minime varianti del medesimo raglio riesce a comunicare tanto la stanchezza che la fame, il dolore come la gioia. 

Ora che gli asini han trovato la via per intrufolarsi nelle stanze del potere, anche il linguaggio della politica – che ispira quello delle televisioni e dei giornali, che a loro volta alimentano quello delle masse – si è in breve tempo degradato, coniugandosi in nuovi ragli (pardon: nuove parole) che indicano non concetti od oggetti reali e determinati, ma insiemi evanescenti di elementi forse intuiti, mai esattamente individuati o descritti. 

E quando il raglio non trova la giusta intonazione, un qualsiasi strafalcione in lingua americaneggiante è sufficiente a completare il discorso. Che si tratti di confondere lo smart-working  (ambiente di lavoro accogliente con angoli o locali destinati al relax e allo svago) con il remote working (il lavoro a distanza), o chiamare footing (fondamenta, appoggio) una corsa leggera su strada. 

Tra i primi cimentarsi nell’arte di piegare la lingua ai propri immediati interessi va certamente annoverato il Berlusca. Non solo per poter elegantemente vantarsi di andare ad «escort» anziché a mignotte, o per adulare a costo zero i propri dipendenti chiamandoli «collaboratori», ma perché a lui si deve la fantasiosa invenzione della parola «imprenditore»: termine del tutto privo di significato, ma presto impostosi per indicare chiunque eserciti una qualsiasi tipologia di attività in proprio. 

Così, in un’Italia che aveva fino ad allora conosciuto impresari, industriali, commercianti, grossisti, dettaglianti, gestori, esercenti, artigiani, tecnici, negozianti, trasportatori e tassisti, a tutti costoro fu consentito fregiarsi dell’inedito titolo di «imprenditore», a cominciare dal Berlusca medesimo, che ebbe così buon gioco nel dir loro: — Dovete votare per me: dopo tutto, anch’io sono un imprenditore come voi!

Gli asini dell’altra sponda compresero l’insegnamento. A cominciare dai sindacati in lacrime per l’improvvisa scomparsa della classe operaia, immediata conseguenza della fine dell’età industriale in Occidente. Quale miglior soluzione, per rincicciare una platea fatta ormai di soli pensionati, se non quella di affibbiare l’etichetta di «lavoratore» a chiunque svolgesse un’attività alle dipendenze? A chiunque non fosse un «imprenditore»? 

Così medici e infermieri finirono rimescolati nel medesimo calderone dei «lavoratori della sanità»; bidelli e insegnanti in quello dei «lavoratori della conoscenza»; autisti, piloti d’aeroplano, comandanti navali e macchinisti divennero «lavoratori del trasporto». E via lavoreggiando. 

Circa poi quella particolare categoria di dirigenti amministrativi che, pur operando alle dipendenze, godevano di retribuzioni cento o mille volte più alte dei loro sottoposti, nel dubbio se definirli «lavoratori» o «imprenditori» ci si rifugiò, come d’uso, nel fantainglese del coro ragliante: — Li chiameremo «manager»! Intendendo con quel termine (che nel mondo anglosassone meglio si attaglia al gestore di un bar, ad un benzinaio, a un allenatore sportivo o, tutt’al più, ad un capufficio) quegli alti gradi aziendali che nell’albionico idioma sono invece chiamati «executives».

La lezione berlusconica è stata entusiasticamente recepita da una classe politica in perenne continua discesa. 

Grande popolarità ha riscosso nei Palazzi la denominazione «governatore» (capo di Stato vicario, nella lingua italiana), colossale fandonia ma utilissima per gonfiare il petto (non il portafoglio) ai presidenti dei Consigli regionali. Graditissime anche le inesistenti cariche di «premier» o «primo ministro»: titolo che spetta al solo capo del Parlamento britannico, ma presto fatto proprio anche da chi, come in Italia, presiede e coordina le riunioni dei ministri senza tuttavia disporre del potere di nominarli o cacciarli. 

E che dire del termine «migranti», che la lingua italiana riserva a quelle specie aviarie che periodicamente vanno e vengono, ma non a quelle umane che vengono e basta? Parola breve, come piace ai giornalisti, che vorrebbe riunire in uno stesso termine concetti spesso opposti tra loro, come emigrante ed immigrante, emigrato ed immigrato, perseguitato, fuggiasco, naufrago, clandestino, vagabondo, senzatetto e chi più ne ha più ne aggiunga.

Nulla, tuttavia, che possa reggere il confronto col «Ministero delle Imprese e del Made in Italy» che, ispirandosi alle contaminazioni linguistiche del compianto Albertone di «Un Americano a Roma» mescola nella medesima insegna l’orgoglio dell’impresa italiana col servile prostrarsi al cospetto della lingua del (fu) vincitore. Ridicola reinterpretazione di un nuovo «broccolino»: la sgrammaticata parlata d’oltreoceano dei nostri emigrati di prima generazione. 

Ultima moda, l’abuso del termine «cittadini» per indicare invece l’intera popolazione, e non solo. Tanto che non è raro leggere o sentire spropositi come: — Dobbiamo offrire trasporti efficienti per il bene di tutti i cittadini!

Come se strade, treni ed aerei fossero al servizio dei soli cittadini italiani e non anche di chi cittadino non è: a partire dai milioni di turisti fino alle migliaia di funzionari aziendali, agli studenti delle tante scuole straniere, alle rappresentanze diplomatiche. 

Ultimo, ma non meno importante, l’uso del nome «Europa» per riferirsi a Paesi, trattati ed accordi internazionali assai differenti tra loro, quasi che l’Europa fosse quello Stato federale che (purtroppo) ancora non è. Così capita di sentire spropositi quali: — I confini dell’Italia sono i confini dell’Europa! (Falso: i confini dell’Italia sono quelli dello Spazio Schengen). O anche: — L’Europa ha una propria moneta! (Falso: l’Euro è la moneta dell’Eurozona, non della UE). O ancora: — L’Europa deve far sentire la propria voce in materia di politica estera! (Impossibile: l’Unione non è uno Stato e la politica estera non è contemplata dai Trattati sottoscritti tra gli Stati membri).          

 * * * * *

Se è vero che gli omuncoli tendono di norma a semplificare il discorso, quando sono invece a caccia di fessi – o perché, da ciarlatani, cercano di spacciare acqua fresca per medicamento universale, o perché, da capipopolo, tentano d’accattar voti dipingendosi migliori di quel che sono – sulle piazze e nelle aule amano al contrario rendere impenetrabili ed astrusi i loro discorsi. Come ben sa chiunque abbia avuto modo di imbattersi in quella lingua immaginaria nella quale si esprimono i burocrati, o abbia appreso da Trilussa del vezzo che ha l’asino di rivestirsi talvolta della pelle del leone.

In questi casi, nessun dizionario al mondo può contenere tutti i vocaboli dell’inarrestabile prosopopea di chi non si accontenta dell’aggettivo «politico» ma preferisce arricchirlo in «politicista» o – perché no? – «politicistico». In attesa che l’avversario lo evolva in «politicisticistico». E via allungando il raglio, nell’inane tentativo di spacciarlo per ruggito, quando ruggito non è. Tutt’al più rigurgito. 

È la collaudata tecnica della supercazzola: una sequela di parole a caso, in parte esistenti, in parte inventate, in parte rubate ad altre lingue, che ha il solo scopo di intontire chi ascolta, nella certezza che ciascuno provvederà comunque ad attribuire ad esse un qualsiasi significato, piuttosto che confessare a se stesso di non comprenderle. 

Così capita persino di ascoltare un presidente del Consiglio dei ministri che pubblicamente rivendica con alte voci di esser lì perché eletto dal popolo! Quando anche i bambini sanno (quelli che studiano) che in Italia i ministri non li elegge proprio nessuno. Ma li nomina il Presidente della Repubblica. Dal primo all’ultimo.  

È acqua fresca. Ma qualcuno se la berrà. Forse persino in troppi. 

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