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L'orso ferito

Non è stata una bastonata alla Russia, la strage al Crocus City Hall dello scorso 22 Marzo. È stato un pugno ben assestato sulla faccia di Putin.

Lo dicono i tempi di esecuzione: pochi giorni dopo il non inatteso trionfo elettorale del dittatore russo, prima ancora che potesse incoronarsene. 

Un colpo che mette a dura prova il fondamento stesso di ogni dittatura: quel patto non scritto per cui una popolazione cede consapevolmente una parte della propria libertà in cambio di una maggior sicurezza. Lo stesso tacito accordo per cui i figli sopportano di buon grado le regole e le limitazioni imposte dal padre, ma solo se questi si dimostra poi in grado di proteggerli. Quando infine scoprono che quella promessa non è in grado di mantenerla, i figli finiscono col ribellarsi. O per scappare di casa.

Colpito nella sua tana, Putin non ha adesso che una sola via d’uscita: convincere il mondo che il vile attacco non è stato personalmente diretto contro di lui, ma contro la Russia intera. E chi sono oggi i «nemici» della Russia, se non Kiev e l’infido Occidente che ne sostiene la difesa? 

Da qui l’insostenibile accusa di una «pista ucraina», con conseguente minaccia di terribili ritorsioni.

Sorvolando sulla nazionalità tagika dei quattro carnefici arrestati e infischiandosene delle ripetute rivendicazioni dello Stato Islamico, che dopo aver sostenuto le spese di un simile attentato rischia adesso di passare alla Storia come innocente, Putin ha dato così per certa la fattiva partecipazione ucraina alla strage. 

Ma sono ancora i tempi di esecuzione a smentirlo. Se pure Zelensky avessero voluto macchiarsi di un così orrendo crimine, quale interesse avrebbe potuto avere nel compierlo proprio adesso, in concomitanza col delicatissimo momento che vede USA e UE intente a ridefinire qualità e quantità del sostegno alla resistenza ucraina? 

Oltre ciò, Zelensky non ha mai dato prova d’essere un vigliacco, rifiutando a suo tempo il dorato esilio per impugnare invece le armi. Putin ha invece più volte dimostrato di esserlo. Inclusa quest’ultima. 

L’auto ucraino, sostiene Putin, sarebbe consistito nella promessa di una facile via di fuga agli attentatori, arrestati mentre si allontanavano proprio in quella direzione. 

Ma ci sono almeno due dettagli che non concordano: 1) l’auto utilizzata dai terroristi, provenienti dal Tagikistan,  aveva targa bielorussa, e tutto lascia supporre che lì intendessero dirigersi, sia per gli inesistenti controlli, sia perché più vicina a Mosca che non l’Ucraina; 2) se realmente avessero voluto attraversare l’Ucraina, ancor prima di goderne i presunti «favori» avrebbero dovuto oltrepassare la militarizzata frontiera russa, poi superare i territori occupati dai Russi, infine lo stesso fronte di guerra. Decisamente una meno agevole via di fuga. 

Fedele al pensiero di Mao Zedong («Trasformare ogni sconfitta in vittoria»), Putin non ha provato vergogna nel tentar di ritorcere il colpo a danno del demonizzato Occidente, avversario evidentemente ritenuto più degno che non quattro scapestrati vogliosi di onorare a loro modo la festività islamica: meglio pugnalato da un potente avversario che non sgambettato da un ragazzino.

I veri nemici, ancor più offesi dall’esser stati tanto platealmente ignorati, non tarderanno a colpirlo ancora. Brucia ancora, tra i Ceceni, l’assassinio di Prigožin dopo quel tentato colpo di Stato alla ricerca del denaro promesso e mai corrisposto ai mercenari della Wagner. Ribellione sedata con promesse di salvacondotti e risarcimento, evidentemente tradite.  

Fingendosi attaccato da un avversario più esterno e più forte, Putin potrà forse salvare la faccia in patria, e magari rinserrare le file. Ma non riuscirà a nascondere al mondo quest’ulteriore prova della propria sostanziale debolezza, politica ed umana. Circondato com’è da troppi nemici e nessun vero amico. 

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