«È importante riconoscere che gli attacchi di Hamas non sono arrivati dal nulla, il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione», sono state le improvvide parole del Segretario Generale davanti al Consiglio di Sicurezza, seguite dall’immediata richiesta di dimissioni da parte dell’ambasciatore israeliano Gilad Erdan.
Parole a dir poco inopportune e inattese, sulle labbra di chi presiede quell’assemblea di rappresentanti di 193 nazioni, nata per riconciliare i popoli attraverso il dialogo, piuttosto che per aizzarli uno contro l’altro.
Per Israele è stato un po’ come ritrovarsi a proteggerlo, nel bel mezzo di un violentissimo incendio, un capo dei pompieri che invita a gettare sul fuoco benzina anziché acqua. Col prevedibile effetto di incendiare ancor più gli animi e far sorgere il sospetto che il capo dei pompieri stia apertamente dalla parte degli incendiari.
Chi difende l’indifendibile pompiere che ostenta il cerino ancora acceso in mano, parte dalla constatazione che il Segretario ONU, dopotutto, abbia pronunciato una verità.
Chi lo accusa, tuttavia, non contesta la sincerità delle pur dubbie affermazioni, quanto la loro scandalosa inopportunità.
Cosa penseremmo se i vigili del fuoco rifiutassero di spegnere un incendio solo perché esiste un sospetto che il padrone di casa ne sia in qualche misura responsabile, colpevole di non aver curato la manutenzione della stufetta o di aver rovesciato l’olio sul fuoco?
Come giudicheremmo un medico che rifiuti di curare un tumore scaricando sul paziente ogni responsabilità, colpevole d’aver troppo fumato in gioventù o di non aver seguito una corretta alimentazione?
Il buon pompiere prima spegne il fuoco, poi si interroga sulle cause.
Il buon medico prima cura la malattia, poi prescrive norme di vita più sane.
Il popolo di Israele è un paziente che ha appena ricevuto una pugnalata alle spalle, mortale quanto inattesa. Non ha altre alternative se non quella di reagire. E non con baci e abbracci, ma col pugnale che anch’essa possiede.
Eppure la lama di chi si difende, alle anime belle del mondo, pare più minacciosa e crudele di quella dell’aggressore.
E questo non è vero: a) perché Israele il pugnale lo mostra apertamente davanti agli occhi del nemico, anziché nasconderlo sotto le vesti per poi colpire nel sonno e alla schiena; b) perché Israele lo rivolge verso un esercito di terroristi armati da nazioni ancora più vili di loro, che si nascondono e li nascondono, non verso civili innocenti.
«Ma come: Israele minaccia proprio donne e bambini innocenti!», è l’altra cartuccia sempre pronta ad esser sparata. Dimenticando che se per Israele la morte dei civili (comunque invitati per tempo a mettersi al sicuro) può essere tutt’al più un danno collaterale, per Hamas la morte di donne, vecchi, invalidi e bambini è stata il preciso e voluto obiettivo iniziale, portato a compimento non per errore ma premeditatamente, dopo anni di preparazione militare in tal senso.
Parole definitive in tal senso le ha scritte due giorni fa Ernesto Galli della Loggia sul «Corriere della Sera»: condannare una risposta armata di Israele per timore che essa possa coinvolgere dei civili «è come se nel 1943 qualcuno avesse rimproverato la Gran Bretagna di rovesciare tonnellate di bombe sui Tedeschi anziché di riservarle solo ai nazisti».
Si accusa ancora Israele di aver rinchiuso i Palestinesi di Gaza in una «prigione a cielo aperto», quasi che il muro fosse stato costruito per recluderli nelle loro terre e non invece, come poi s'è visto, per difendersene.
Si condanna poi Israele per aver interrotto le forniture di acqua, cibo, medicinali ed energia alla Striscia: quasi esse fossero una sorta di «reddito di cittadinanza» a quella dovuto e non invece un aiuto umanitario offerto dai «nemici» in luogo di quelli inspiegabilmente negati dagli «amici». Aiuti elargiti non solo da Israele ma dalle maggiori organizzazioni internazionali, dalla Croce Rossa all’ONU, fino ai Paesi occidentali. Non certo dai 22 battaglieri e stramiliardari Paesi della Lega Araba, o dalla Turchia, o dall’Iran, o dalla Cina, o dalla Russia.
La «prigione a cielo aperto», infine, sarebbe ancora tale, se l’«amico» Egitto aprisse agli «amici» Palestinesi le proprie frontiere, così come l’intero Occidente ha fatto per dare un rifugio ai perseguitati Ucraini? O se paracadutasse tonnellate di cibo e di medicinali sulla Striscia? O se mandasse le proprie navi a raccogliere in mare i Palestinesi in fuga?
No: prestare aiuto ai civili di Gaza, innocenti, ma attivi sostenitori (ed elettori) dei carnefici di Hamas; innocenti, ma scesi a festeggiare in piazza le stragi del 7 Ottobre; innocenti, ma pronti ad obbedire all’ordine di penetrare in casa altrui per sterminare qualsiasi essere vivente purché debole e disarmato, pare essere un dovere per Israele, ma solo un’opzione per chi, avvolto nelle bandiere palestinesi, scende in piazza da Londra a Parigi, da Teheran ad Istanbul, ma non muove un dito se non per inviare costosissime armi.
Per il Segretario delle Nazioni Unite ogni spiegazione è semplice: hanno iniziato loro, gli Israeliani, nel 1948.
Dimenticando però che, meno di ventiquattr’ore dopo la proclamazione dello Stato di Israele (l’«inizio»), son stati altri a continuare: quella Lega Araba che, forte e compatta, rifiutando la risoluzione ONU di costituire accanto ad Israele uno Stato palestinese, dichiarò guerra a quanti allora non erano che pochi, coraggiosi, poveri e male armati coloni. Ma che nel nome del loro Davide contro l’altrui Golia, furono allora non soltanto capaci di difendersi, ma perfino di espandersi. Fino ad occupare quei territori nemici che adesso gli vengono contestati.
Persino per bocca del segretario di quella stessa Organizzazione delle Nazioni Unite che, nel 1947, con la risoluzione 181, pose le basi per la nascita dell’odierno Stato ebraico.
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