È stato invece sufficiente il vago aleggiare di alcuni tenui sospetti circa le possibili malefatte di qualche membro del governo o dei familiari di qualche parlamentare per scatenarne a un tratto la scomposta quanto irragionevole ira.
Una cruda manifestazione di rabbia plebea, non dissimile da quella del ragazzo di strada colto sull’autobus senza biglietto e che però, lungi dal mostrare segni di pentimento, alza la voce (e talvolta le mani) sul malcapitato controllore, sputando sulla divisa e disconoscendone l’autorità.
Ha aperto le danze la botticelliana ministra, sotto inchiesta a sua insaputa (nonché a suo dire) per una serie di supposte malefatte di specie amministrativa e fiscale. Anziché sottolineare la propria ferma indignazione col restituire stivali e galloni, così da godersi al meglio l’incipiente stagione estiva, la minacciata ha improvvisato in Senato un interminabile pippone teso a dimostrare non solo l’assoluto candore del proprio comportamento, ma soprattutto la crudele volontà di persecuzione da parte di coloro che si son permessi di avanzare simili infondati sospetti nei confronti di tanto specchiata onestà. Non ha sollevato la manica per mostrare il braccio con tatuato il numero dell’avviso di garanzia, ma poco c’è mancato.
Come fulmine a ciel non più così sereno, è piombata a breve distanza la notizia dell’imputazione coatta di un sottosegretario sospettato di non saper mantener né i segreti, né i sottosegreti, sgusciati come pesci dall’acqua in occasione del dibattito parlamentare sul digiuno intermittente dell’anarchico ingabbiato.
Ciliegina sulla torta, infine, han chiuso la settimana le pubbliche accuse sulla vivace prole del presidente del Senato, immediatamente montato a cavallo e partito lancia in resta contro quella magistratura di cui pure potrebbe ritrovarsi a capo, in caso di un’ancor lieve indisposizione del presidente della Repubblica: sola figura istituzionale a lui superiore in grado.
Una tripletta niente male, rabbiosamente restituita all'immaginario mittente con una rude polemica made in Palazzo Chigi indirizzata a una magistratura narrata come una forza ostile, determinata e compatta, dedita ad attaccare il Governo onde favorire le ambizioni elettorali (caso mai ne avessero) di un’opposizione che appare al contrario sempre meno ostile, sempre meno determinata, sempre meno compatta.
«La magistratura sta attentando alla Costituzione!», ha dichiarato un senatore di duplici e opposte vedute, evidentemente più vicino all’esecutivo (di cui non fa parte) che non al parlamento (di cui invece fa parte). Scordandosi che l’iscrizione con cui il governo (non la magistratura) nobilita ogni aula di giustizia porta inciso sul marmo il motto: «La legge è uguale per tutti». Pronome dal significato assai largo che include anche ministri, sottosegretari, figli di alte cariche dello Stato.
La domanda finale è sempre la medesima: cui prodest? Chi ci guadagna e chi no nel sollevare un tale indegno polverone?
Che qualcuno intenda raccattare da sottoterra una tra le più sconce eredità politiche trasmesse dal Cavaliere ormai inesistente? Che tanta cagnara serva ancora una volta a coprire incapacità, ritardi e inefficienze dell’azione di Governo? Che sia un metter le mani avanti nel timore di prossime più incisive rivelazioni in ambito civile e penale?
Lo vedremo presto. Di quel cibo si nutrono i giornali, che non mancheranno certo di servirne in tavola.
Resta tuttavia la preoccupazione per un esecutivo incapace di eseguire alcunché, ai cui innocui latrati risponde flebilmente lo scomposto borbottio di un ancor più innocuo simulacro di opposizione. Un governo tanto sofferente per la mancanza di un vero avversario da ritrovarsi costretto ad inventarsene sempre di nuovi. Fossero anche la magistratura, o le istituzioni europee, o «chi c'era prima», o i Paesi vicini.
Non diversamente da quegli adolescenti immaturi che, alla disperata ricerca di un facile nemico, finiscono con l’identificarlo in quegli stessi genitori che hanno avuto l'unico torto di metterli al mondo.
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