Acrobati e pagliacci, orchestrali e trapezisti, bestie ammaestrate e bestie feroci, imbonitori e questuanti risalgono sugli scassati o pretenziosi carrozzoni, lasciando dietro di sé montagne di escrementi e altri rifiuti.
Spettatori di sedici nazioni hanno affollato le tribune, desiderosi di sangue e arena. Gli è stata offerta una sfilata di edite ed inedite nullità, illuminate dalla presenza di qualche vecchio leone ridotto anch’esso al belato, dopo tanto passato ruggire.
Doveva essere il festival di Zelenzky, ma è diventato senza saperlo il festival di Putin, orrido campionario di quell’occidental degrado e decadenza della quale il russo principe dei vigliacchi si fa scudo per giustificare l’ingiustificabile: sovvertire con le armi l'equilibrio così faticosamente costruito tra le nazioni.
Quale miglior regalo al dittatore in colbacco dell’infinito repertorio di luoghi comuni, di politicamente corretto, di sedicenti «trasgressioni», di effusioni fra tatuati, di libere canne, di gratuiti vandalismi, di volgarità ostentate, di cattivo gusto elevato a stile di vita, di culto del presente alimentato dalla negazione di ogni passato e dalla rinuncia a un qualsiasi futuro?
Davvero l'Occidente è diventato tutto questo?
Sfortunatamente per Putin, che crede di vedere nel festival il ritratto di un mondo senza più legge e sull’orlo del precipizio, quel cialtronesco palcoscenico altro non è che uno dei tanti volti dell'illustre tradizione carnascialesca italiana, di cui Sanremo osserva non a caso il periodo e le date.
Seppur con nuove maschere, nuove beffe, nuove sregolatezze, nuovi eccessi, quel carnevale da terzo millennio non è poi così differente dalle pazzie che la Roma cattolica usava concedersi alla vigilia delle tristezze quaresimali. E ancor prima le popolazioni greche, nel corso delle celebrazioni dionisiache.
L’antico carnem levare era considerato dai potenti, come in parte ancora lo è, la necessaria valvola di sfogo degli umori della plebe: una licenza di insulto e di sberleffo annualmente concessa al popolo come una sorta di assicurazione contro altre più cruente possibili manifestazioni di dissenso, un rompete le righe prima di serrarle ancor più strette nei successivi quaranta giorni di rigorosa penitenza.
Semel in anno licet insanire, sostenevano saggiamente gli antichi: una volta all’anno è lecito impazzire. Una pazzia regolata, nei tempi e nei modi, è assai meno pericolosa di un’imprevedibile follia.
Chi già godeva di ogni libertà, non sentiva certo il bisogno di un carnevale o di un festival che gli consentisse di assaggiarne per qualche giorno il sapore. Ma quei tanti che per sopravvivere dovevano sottostare agli ordini di qualcun altro, non attendevano che quei pochi giorni di Febbraio per scatenarsi e tirar fuori tanto il peggio che il meglio di sé.
Il fatto che in Occidente sia concesso per tutto l'anno il diritto di parlare, sparlare, fantasticare e pazziare, ha forse illuso russi e dittatori che quel mondo sia di fatto sgovernato, fatto di arlecchini, balanzoni e pulcinella capaci solo di scherzare e gozzovigliare, debilitati nel corpo e offuscati nella mente in un perenne quanto debosciante carnevale.
Se solo riuscissero ad allungar lo sguardo oltre il proprio naso, forse vedrebbero quali muscoli si celano sotto i lustrini. E che la gente, come già altre volte è accaduto nella Storia, «quando si tratta di scegliere e di andare, te la ritrovi tutta con gli occhi aperti, che sanno benissimo cosa fare: quelli che hanno letto milioni di libri e quelli che non sanno nemmeno parlare». Per dirla con De Gregori. Che a Sanremo neppure c’è mai stato.
Chi ama vincere facile, non si illuda.
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