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Votare. Perché?

«Andate a votare!», è stata l’implorazione che Draghi ha rivolto ieri al giovane pubblico cattolico di Rimini, riunito per l’annuale meeting di Comunione e Liberazione. 

Civilissima esortazione, alla quale verrebbe tuttavia da rispondere: «Sarebbe bello. Potendolo!». 

Sarebbe bello poter esprimere una propria scelta, indicare il nome di un candidato, esprimere apprezzamento per un partito. Se il Rosatellum consentisse di farlo. Ma non lo consente. Non sono in gara né dei nomi e dei cognomi, già prescelti, né tantomeno dei partiti, annacquati dentro forzate coalizioni.  

Nessuno meglio di Draghi è in grado di comprenderlo, e tuttavia la sua raccomandazione ha comunque un senso. 

Prima ancora di domandarsi per chi votare, è giusto domandarsi perché votare. Se è vero che recarsi alle urne non serve ad esercitare un libero voto – che libero più non è –  piegarsi al rito serve comunque a rimarcare la necessità che nel Paese delle urne aperte ci siano, seppur addomesticate, e che se i partiti mostrano d’avere una paura folle del confronto elettorale, i pur defraudati elettori quel timore non ce l’hanno affatto, e andranno in ogni caso alle urne. Foss’anche per annullare una scheda che nulla già lo è, dal momento che nulla è in grado di mutare nelle scelte già fatte da altri. Altrove. 

Un’astensione superiore al 40%, come molti osservatori prospettano, non sarebbe una sconfitta dei partiti ma, al contrario, la consacrazione di un potere che la Costituzione non riconosce loro e di cui tuttavia si appropriano – usurpandolo – attraverso la sistematica occupazione delle istituzioni. A partire dal Parlamento: unica istituzione ad elezione diretta prevista dallo Statuto.

Certo, un modo ci sarebbe, per far schizzare la percentuale dei votanti su valori assai prossimi al 100%: quello di consentire agli elettori la possibilità di esprimere un voto negativo. Sarebbe la festa degli haters, dell’infinito partito del NO, dei commentatori al veleno, degli infelici perpetui e degli scontenti a prescindere. Si rivedrebbero le file ai seggi e le facce soddisfatte all’uscita dalle cabine: non solo la possibilità di regalare un voto alla coalizione amica, ma anche – in alternativa – il piacere di toglierlo alla coalizione nemica! In una sorta di ostracismo preventivo, non poi così differente da quella sorta di daspo politico in uso nell’antica democrazia ateniese. 

Ma sarebbe un vincere facile. 

Già adesso quelle coalizioni che non hanno niente di serio da proporre o da dire riassumono il loro inesistente programma nel «non far vincere il nemico». Il medesimo ragionamento dell’invidioso che, incapace di crescere ed arricchirsi, brama veder sminuito e immiserito il prossimo. Come quel filo d’erba fermamente convinto d’essere un albero, ma solo perché non ne aveva alcuno intorno con cui misurarsi.

Un’alta affluenza alle urne, il 25 Settembre, rischia di inorgoglire quegli stessi partiti che per mero interesse han privato l’elettore della libertà di voto. Ma una bassa o bassissima affluenza, lungi dal danneggiare i partiti (che vedrebbero comunque i propri nominati occupare il Parlamento, e da lì le altre istituzioni) potrebbe suggerir loro di cancellare quell’ultimo simulacro di voto che ancora rimane, trasformando l’Italia da repubblica parlamentare in repubblica popolare. Dove il popolo non si identifica col Parlamento ma, appunto, con i partiti. 

Andare alle urne, stavolta, non sarà certo un piacere, ma resta comunque un dovere. 

Dovere morale, s’intende. Per chi una morale ancora la possiede. 

  

 

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