Esiste un confine invalicabile tra le istituzioni e la politica. Le prime detengono ogni potere, declinato nelle tre distinte varianti: legislativo, esercitato dal Parlamento; esecutivo, messo in atto dal Governo; giudiziario, amministrato dalla Magistratura. La politica, invece, non dispone di alcun potere e non ha altro ruolo se non quello di raccogliere le istanze di una parte (se si tratta di «partiti») dei cittadini per trasformarle in proposte politiche, ossia compiute e articolate proposte di legge.
La differenza tra un partito e un movimento, poi, consiste nel fatto che il primo inquadra le proprie proposte all'interno di una visione complessiva del mondo, il secondo porta invece avanti una o più proposte (il divorzio, l'eutanasia, la depenalizzazione delle droghe ecc.) non necessariamente legate tra loro da un più esteso programma politico.
Il movimento di Grillo è nato come un generico grido di protesta (non il più elegante) nei confronti di tutto e di tutti. Trattandosi di un linguaggio facilmente comprensibile dai più, ha presto raccolto i voti dei più. Intendendosi con «più» i più numerosi, non certo i più intelligenti o i più preparati. Dal momento che è sufficiente entrare in qualsiasi bettola, a qualsiasi ora del giorno, per udire un numero maggiore di avventori scambiarsi fraternamente lo slogan identitario pentastellato (vaffa), che non sentirli declamare la Repubblica di Platone.
Nonostante le tanto umili origini, quell'iniziale magma urlante dell'uno-vale-uno (tutto-vale-tutto) capace di irridere persino il povero Bersani (che ad altro non ambiva se non a trasformarli in esseri umani), passato prima attraverso la macina di Salvini ed infine tra i rulli del laminatoio piddì, si è pian piano trasformato in una sorta di centauro: un essere dal busto umano (che è già un partito, con un'idea ed un programma) e un corpo ancora animale, uso a scalciare in tutte le direzioni. Purché si scalci.
Di Maio, fino a poco tempo fa equino scalciante, ha conquistato a pieno diritto il titolo di umano dopo la nomina a ministro da parte di quello stesso Mattarella che il precedente Di Maio (quadrupede) contava di cacciare a forza dal Quirinale.
Conte, fino a poco tempo fa volto umano di un movimento altrimenti impresentabile, ha conquistato invece a pieno diritto la pubblica nomea di «Dibba con la pochette». Praticamente due insulti in uno: uno al Conte dibattistizzato e un secondo al Dibba contizzato.
Per sbrogliare la matassa occorre ripartire dal discorso iniziale.
Di Maio fa parte di ben due istituzioni (Governo e Parlamento), Conte di nessuna. Oltre ciò, per diventare ministro (dal latino minister: servitore) Di Maio ha pronunciato il 13 Febbraio 2021 il seguente giuramento: «Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell'interesse esclusivo della Nazione». Ossia la formale promessa di escludere qualsiasi altro interesse che non sia quello del Paese, a cominciare dall'interesse personale per finire con quello di parte. Anche e soprattutto se quella «parte» dovesse essere il suo partito.
Ne discende che se Di Maio dovesse anteporre il partito al Paese, risulterebbe indegno del ruolo (oltre che colpevole di infrazione all'ottavo comandamento), e il presidente Mattarella che l'ha nominato sarebbe tenuto a revocarlo e a sostituirlo.
Se invece Di Maio dovesse anteporre il Paese al partito (come in effetti ha fatto e sta lodevolmente facendo) non solo ciò non potrebbe in alcun modo esser considerato una colpa, ma sarebbe al contrario un grande merito, poiché starebbe tenendo fede al giuramento prestato.
Il peggio di quel che rimane dei cinquestelle, accendendo il cerino sotto la poltrona di Di Maio non potrà che bruciarsi le dita. Troppo vigliacchi per togliere la fiducia al loro stesso ministro e far cadere il governo, troppo stupidi per rinunciare a mordersi tra di loro: come animali accalcati in un recinto che si va facendo ogni giorno più stretto.
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