Tanto la Grande Guerra (colonialista) che la Seconda (imperialista), furono entrambe figlie di un’Età Industriale allora in crescita esponenziale, volte l’una ad assicurare alla propria nazione le materie prime, l’altra ad esercitare un diretto controllo sui mercati di consumo. Tanto i vecchi imperi che, più tardi, i nuovi, erano di fatto in corsa per il medesimo trofeo: eliminare quei due soli limiti (approvvigionamento e vendite) che impedivano al nuovo modello produttivo industriale di raggiungere le massime vette. .
Oggi, con una popolazione mondiale ottuplicata, in un Occidente disorientato e spopolato dove per vivere è sufficiente un unico braccio (quello che regge il telefonino), con una Cina infastidita dai primi pizzichi della fine dell’Età industriale (che, prudentemente, disloca in Africa e in Asia le produzioni meno qualificate), con un’India, un Brasile, un Messico, invece al culmine del loro straripante sviluppo, il nuovo pianeta tripartito non gareggia più nella medesima disciplina, ma gioca tre diverse partite. Anche se sul medesimo campo: sempre, ancora una volta, quello della vecchia Europa.
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Diversi sono gli obiettivi dei contendente. Tre i diversi modi di spremere il mondo. Tre gli sfidanti: l’insoddisfatto Trump, il criptocomunista Xi Jinping e il cavernicolo Putin.
Corrono tre gare differenti e sbavano per tre differentissime medaglie.
Trump insegue il denaro. Se potesse venderebbe l’America a pezzetti, o lo sta già facendo. Ma le grandi ricchezze, nel Terzo Millennio non vengono più dalla vendita di oggetti ad un prezzo oggi dieci o trenta più basso di trenta o quarant’anni fa: quando un paio di scarpe costava un intero mese di paga (oggi una solo giorno è sufficiente), un televisore sei mesi di stipendio (oggi due settimane) e altrettanto un frigorifero o una lavatrice.
Oggi si guadagna dai servizi, più che dai prodotti. Anche perché molti di quegli antichi oggetti (si pensi all’editoria digitale) da beni materiali e tangibili si son rapidamente trasformati in beni immateriali. Non si va al cinema, ma è il cinema che viene da noi. E così i libri, la musica, il cibo, la banca e tutti quei beni che un tempo comportavano uno o più viaggi in città, settimane di ricerca per negozi, rateazioni infinite per poterli pagare.
Con otto miliardi di possibili clienti sulla superficie del pianeta, è infinitamente più facile portar via un euro a due miliardi di poveri che non un milione a duemila milionari.
L’Asia produce oggi a bassissimo costo tutti i telefonini e i computer del mondo, tutti i televisori, le macchine fotografiche, le radio ed ogni elettrodomestico, dalla lampadina al condizionatore che migliora la vita nelle case dei Terrestri, capanne o grattacieli che siano.
Con un piccolo «però»: l’Asia forgia soltanto il corpo di quegli oggetti (dopo aver rubato all’Occidente la costola del know-how) ma non è in grado di insufflare in essi un’anima. Senza la quale non è dato loro vivere. A che serve un telefonino senza Google Android o Apple IOS? O un televisore senza film, serie e format americani? O un navigatore per auto senza una rete GPS globale? O un’autoradio che trasmetta solo vecchia musica tradizionale o regionale?
Sin dalla fine della (loro) Età Industriale (1990) gli USA hanno avviato quel Big Switch che, mentre vedeva chiudere acciaierie, miniere, marchi automobilistici, forniture domestiche, spostava risorse sui beni immateriali: reti satellitari di comunicazione, software, editoria virtuale, cinematografia low-cost... Non diversamente da quel che accadde, dieci anni dopo, a Milano, lesta nel reagire alla scomparsa di marchi industriali storici per meglio riciclarsi nella finanza, nella pubblicità, nella televisione, nella moda, nell’editoria digitalizzata.
Oggi gli USA poco producono ed ancor meno esportano, se non beni immateriali. Non hanno come primo nemico la Cina o la Russia, ma l’Europa. Non soltanto perché terra di conquista dei grandi gruppi di vendite online, ma anche e soprattutto perché è il primo e più vasto giacimento al mondo di quel millenario patrimonio di beni immateriali che va sotto il nome di Cultura e che in nessun altro angolo del mondo è altrettanto ben custodito, conservato e coltivato.
Ed è proprio in quell’immenso sotterraneo mare (Pensiero Fossile) che si abbevera quella miniera di altrui beni che è la cosiddetta «AI», erroneamente tradotta da molti come «Intelligenza Artificiale».
Diciamo «erroneamente» perché una traduzione certo più aderente del termine «intelligence» sarebbe, nell’italico idioma: «informazione», «indagine».
Una persona intelligente (non stupida), nel modo anglosassone la si indica assai più propriamente con l’aggettivo «clever»: intelligente, pronta, sveglia.
Parlare di AI significa allora parlare di «raccolta automatizzata di informazioni». Che è poi quel che realmente accade. Grazie ad algoritmi sempre più perfezionati che riescono ad individuare e selezionare, tra miliardi di notizie che il pianeta sforna incessantemente di minuto in minuto, quelle maggiormente pertinenti all’argomento che all’AI il ricercatore propone.
Un mestiere che Dante o Petrarca avrebbero potuto serenamente svolgere nelle contenute biblioteche dei palazzi o dei monasteri della loro epoca, ma che al giorno d’oggi, con decine di migliaia tra testate giornalistiche e radiotelevisive, con trecento libri pubblicati quotidianamente, migliaia di spettacoli, manifestazioni, festival, rassegne, eventi, nessuno potrebbe padroneggiarli se non con mezzi definibili e definiti non umani.
Riassumendo: l’AI si ciba di informazioni, le informazioni nascono e riposano essenzialmente in Europa, l’Europa si sforza di mantenere vivi i diritti di proprietà degli autori: ergo l’Europa diventa «il nemico». Per gli USA, poi, detentori di un quasi monopolio mondiale nella ricerca AI, decisamente il primo. Se non il solo.
Ma l’Europa sta anche nel mirino di Xi Jinping.
Solo Trump, nella sua sconfinata stupidità, avrebbe potuto immaginare che fosse sufficiente imporre dazi stratosferici per far sì che gli Americani si rimettessero a costruire caffettiere, macchine fotografiche, televisori, giradischi. L’Età industriale è finita da un pezzo, in Occidente. Resta l’artigianato d’eccellenza. Senza prezzo! Con costi di produzione che impediscono alla Svizzera di vendere un orologio per meno di 15.000€, all’Italia un maglione diu sartoria al di sotto di 4.000€, alla Francia un vino di qualità se non oltre i i 50€.
La Cina continuerà a rifornire di lavatrici e ciabatte il mondo. Ma se gli USA chiudono le porte a lavatrici e ciabatte, alla Cina non resta che raddoppiare le vendite in quel mercato pur già saturo che è l’Europa, nell’attesa che (presto) entri in scena l’emergente e promettente mercato africano.
Così, per cause che certo indipendenti da ogni sua volontà, L’Europa è finita anche sotto il tiro della Cina, che vorrebbe impadronirsi dei porti e monopolizzare le vendite.
La Russia di Putin è un caso a parte. Non è mai stata in grado di grado di produrre da sé né le mutande che indossa, né i proiettili che spara. Necessita di tutto, ma ha di che pagare: possiede l’11,4% delle terre emerse, dalle quali raccoglie oro, petrolio, diamanti, gas, uranio, cobalto. Svendendo i quali gli zar si fecero a loro tempo costruire da Francesi e Italiani le due sole vere città che possiedono, ed oggi ci pagano il necessario per vivere. Ed anche ciò che a noi pare superfluo: ma che agli occhi di una popolazione superflua come la loro, del cui ingombro il pianeta potrebbe proficuamente e felicemente fare a meno, appare ancor più necessario del necessario, iniziando dalla vodka per finire, come lì usa, tra le scarse luci di qualche casa inequivocabilmente equivoca.
Un popolo primitivo senz’arte né parte, capace forse di far colbacchi con le pelli di qualche cane o orsacchiotto passato a miglior vita, senz’altra maggiore ambizione se non quella (mission impossible) di esser considerato appartenente anch’esso alla specie umana.
E non sapendo (o non volendo) compiere opere di bene, compie opere di male. E poiché chi sceglie la via del male lo fa perché la considera assai più agevole di quella del bene, ama scegliersi, di norma, avversari almeno ventotto volte più piccoli di lui. Gli piace vincere facile. Il lupo non attacca altri lupi, e ancor meno i leoni o le tigri: preferisce misurare il proprio inesistente coraggio sbranando agnelli o galline. E mai da solo! Sempre, rigorosamente, in branco.
A caccia di pollastri senza coraggio e senza cervello (se si osserva che un mese è stato sufficiente per conquistare Trump e il suo sventurato Paese, ma quattro anni non son stati abbastanza per allungare un passo oltre i confini russo-ucraini) il lupo trotterellone mai così allupato ha volto anch’egli lo sguardo verso l’Europa: unico esempio al mondo, dopo l’ONU, di una «unione di Stati» ma non di «Stati uniti». Potentissimi ciascuno in casa propria ma impotentissimi nell’androne, nelle scale e nelle altre parti comuni di quel club (ma non condominio). Edificio da sempre in perenne costruzione. Mai terminato.
Così, la buona vecchia Europa è finita anche nel mirino di Putin. Desideroso, quanto meno, di riacciuffare per il collo quegli Stati europei sfuggiti solo trentacinque anni fa al giogo dell’URSS.
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Si potrebbe arguire, in chiusura del discorso, che la premessa iniziale (i tre non inseguono la medesima medaglia, ma gareggiano in tre differenti discipline) pecchi di fallacia, vedendoli tanto apparentemente uniti nel desiderio di strappar le piume ad un’Europa che, in fin dei conti, manco se li fila.
Non è così. La bandiera europea resta la la medesima per ciascuna delle tre parti in agguato, è vero: azzurra con dodici stelle d’oro. Diverse son tuttavia le motivazioni che li spingono a lacerarla in ventisette pezzi.
Per gli USA, bypassare le leggi europee e depredare cinquemila anni di civiltà per nutrire gratis e senza regole la loro AI, rivoltando la Storia più di quanto abbian fatto finora, abbattendo statue e rubando insenature al Messico, serve a moltiplicare quella tassa sui fessi che da un decennio vanno imponendo al mondo, accusando per giunta di scrocconeria quell’Europa che (non solo culturalmente) li nutre.
Per la Cina, assicurarsi un più ampio accesso al mercato di consumo europeo è un mezzo per ritardare quella fine dell’Età Industriale ormai incombente in Cina, annunciata anche lì da una sensibile crescita della disoccupazione e dal prezzo in calo del prodotto finito: primo indicatore del mancato incontro tra domanda e offerta.
Per Putin l’Europa è invece una facile via per far la voce grossa tanto con i due compagni di merende (Trump e Xi Jinping, guadagnando salamelecchi dal primo, soldi e armamenti dal secondo), sia con i Paesi ex URSS, alcuni dei quali già comprati in contanti, altri, a ridosso del confine, facili da rubare.
Il premio finale solo apparentemente è lo stesso.
Le discipline sportive sono invece ben diverse:
a) imposizioni normative e fiscali del Re di Washington ai feudatari europei: che paghino in silenzio;
b) misure privilegiate per le esportazioni cinesi per incicciare le casse del costoso Partito Comunista Cinese (comune proprietà di un solo uomo al comando);
c) premio di consolazione per quel branco di lupi guidato da Putin che, trovata troppo dura la carne ucraina, già volge lo sguardo su quelle assai più tenere dei Paesi Baltici, della Bulgaria, della Romania, della ricca Repubblica Ceca, della piccola Slovacchia.
Per male che vada, una carne a lui gradita potrà sempre comprarla dal macellaio, in Ungheria.
Già pagata, tra l’altro. Non c’è che da ritirarla.

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