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Un pallone a tre spicchi

Due dei tre capicosca, Trump e Putin, hanno da tempo calato le carte. Il terzo, Xi Jinping, siede silenzioso sulla riva del fiume, in attesa anch’egli della promessa fetta di torta. 

È una notizia? 

No. Non lo è. 

Lo sarebbe stata prima dell’intervento di James David Vance alla Conferenza di Monaco di Baviera, dieci mesi or sono: esplicita dichiarazione di guerra all’intera Europa. Continentale e non.

Ne scrivemmo dettagliatamente allora («Sotto assedio»): «Il piano di Trump e Putin di spartirsi il mondo in una partita a due si scontra con la realtà di un gioco ormai diventato a tre [...] Gli USA, ridimensionando l’Europa da prezioso alleato a bottino di guerra, si inchinano a baciar la pantofola al nullafacente Vladimir Putin pensando di poter in tal modo isolare Xi Jinping, che ne ricava invece mano libera nel Pacifico [...] In uno scenario che pare velocemente scivolare verso una lunga stagione di guerre, l’Unione Europea non ha che una sola possibile via di salvezza. Una e quanto mai urgente. Quella di farsi (finalmente) Stato». 

È un pallone a tre spicchi, il mondo immaginato da Donald Trump già all’indomani del secondo insediamento, quando volse lo sguardo da stupratore seriale per minacciare a nord i reami britannici e danesi di Canada e Groenlandia e, a sud, il resto del continente («Mi servono e me li prendo!»). Impossibilitato a mordere, il dittatore dovette limitarsi ai latrati, imponendo con la forza di ribattezzare l’esistente Golfo del Messico in un inesistente «Golfo d’America»: cialtronesca operazione (a spese altrui) paragonabile al più recente cambio d’etichetta del ministero della Difesa in «Ministero della Guerra». Oggi, anziché scannarsi coi suoi pari, il grande dittatore ha scelto di avventarsi contro il topolino venezuelano. Da buon vigliaccone di periferia, quale in effetti è.

Il Venezuela altro non è che la sua piccola e personale Ucraina, giusto sotto casa, L’Ucraina quella vera, fallito il tentativo di rubarla a Zelensky, l’ha invece regalata a Putin. I giacimenti di terre rare, dopotutto, non stanno a Kiev ma nel Donbass, e sarà più facile riaverli in dono dal criminale a cui li ha dati che non acquistarli dal legittimo proprietario. Da quella rampa di lancio, confinante con Romania, Ungheria, Slovacchia e Polonia, a meno di 600 km dalla Germania, per l’assassino russo sarà una passeggiata riprendersi, col pieno sostegno di Trump, quella mezza Europa ancora trentaquattro anni fa schiacciata sotto il tallone sovietico. 

Quanto al saggio Cinese, resta per lui sul piatto il facile quanto appetitoso boccone di Taiwan. Condito in salsa giapponese ed insaporito da quel gigante industriale che è il Sud Corea, già nel mirino dell’amico Kim Jong-Un: instancabile fornitore d’armi e carne da cannone per il macello russo in Ucraina. 

* * * * *

Il quadro politico non è mai stato tanto leggibile e chiaro. Progettato dai solitari neuroni di gente ignorante, qualsiasi altro ignorante è in grado di comprenderlo. 

Ma occorre distinguere. C’è chi chi quei venti di guerra ha il coraggio di guardarli negli occhi (Giappone, Germania, Gran Bretagna, Europa ex sovietica, Finlandia, mezza Francia ed altri sventurati confinanti), e chi invece volta la testa dall’altra parte (Spagna, Portogallo, l’altra mezza Francia, buona parte dell’Italia), senza tralasciare coloro da un pezzo si son venduti al nemico (Ungheria, un quarto di Romania, i reduci del populismo gialloverde in Italia, al governo e no).

È facile riconoscerli. I primi, autoetichettatisi «volenterosi» (più corretto sarebbe stato «coraggiosi») han scelto di munirsi per tempo dei minimi irrinunciabili strumenti di difesa e di offesa; i secondi vivono al telefonino la consueta non-vita e progettano vacanze low-cost in Paesi che tra pochi mesi potrebbero anche cessare di esistere; i terzi acquistano barche e ville con i dollari ed i rubli generosamente donati dal nemico. 

Resta da domandarsi chi abbia infine da guadagnarci e chi invece da perdere, da una simile tripartizione del mondo. Non il frutto di nuovi colloqui e trattati di pacifica convivenza, ma atto di forza imposto da terzi con il fucile puntato al capo. 

Il primo indubbiamente destinato a perderci è il veterogangster Donald Trump: il rincitrullito mette sul piatto un continente ricco e potente senza ricever nient'altro in cambio se non false lodi, finti premi, interessati sorrisi, statue in finto oro, slinguaccianti adulazioni e medaglie farlocche. Col sempre più concreto rischio di trovarsi un domani costretto a rifabbricarsi in casa – a carissimo prezzo – quelle scarpe, auto, camicie e lavatrici che oggi acquista a prezzi cinquanta volte inferiori in Oriente. Sacrificando in tal modo non solto due terzi del suo potere militare e politico, ma anche una buona metà del proprio (relativo) benessere. 

Il secondo perdente è certamente Xi Jinping. Fra i tre dittatori, è il solo realmente interessato al mantenimento di una pace mondiale, impegnato com’è nel gestire gli ultimi anni dell’Età Industriale in Cina, mentre già ne ha avviato una del tutto nuova in Africa. Chi ancora produce e commercia beni materiali non può fare a meno di mercati liberi, frontiere aperte, accesso alle materie prime. Ossia l’esatto contrario di quel protezionismo chiesto invece da Trump. La Cina rischia di impoverirsi. E se anche dovesse riuscire ad impadronirsi del Giappone, ormai popolato da ultrasettantenni che nulla producono e poco consumano, l’acquisto non compenserebbe la perdita dell’Africa: due miliardi di giovani che necessitano di tutto: dalle ciabatte alle infrastrutture, dai televisori alle automobili.

Chi ha tutto da guadagnare e nulla da perdere è invece la Russia di Putin: un Paese primitivo che non produce assolutamente nulla e vive di caccia (pellami per giubbe e colbacchi) e di quel che facilmente raccoglie sul proprio smisurato territorio: oro, diamanti, uranio, cobalto, gas, petrolio. In quantità tali che neppure industrializzando l’intera nazione e recludendo in fabbrica i suoi relitti umani – già al mattino ubriachi di pessima vodka – difficilmente riuscirebbe ad esaurire i giacimenti. 

Se Putin non ha nulla da perdere, non può che guadagnare: dai territori perduti dell’URSS fino ad un mare tutto suo, possibilmente non ghiacciato come il Baltico, minuscolo come il mar d’Azov, chiuso come il Caspio, inaccessibile come il Mar Nero: il mare è uno dei due beni a cui realmente ambisce e che al momento non possiede. L'altro è il rispetto umano: quello di cui la teppaglia russa non ha mai goduto in passato e difficilmente potrà conquistare in futuro. Né con le armi, né col denaro. L’onore non è in vendita: occorre costruirselo da sé.  

* * * * *

Solo gli agrumi e i palloni nascono già ripartiti in spicchi, ed il piccolo pianeta Terra, osservato da queste nostre nuvole, pare più simile ad un curioso quadro astratto che non ad quelle precise geometrie. Difficile affettarlo in tre parti uguali senza lasciar fuori alcune aree il cui futuro appare oggi assai incerto. 

Non soltanto il continente europeo, avviato a testa china verso la resurrezione dell’abbattuto muro, ma anche l’India, Paese più popoloso al mondo, oggi al culmine della sua Età Industriale, vicina alla Cina ma prudentemente dialogante con gli USA. O l’Africa, già in gran parte cinese, ma con una crescente presenza russa nei settori energetico e militare. Ed il Medio Oriente, spopolato ma ricco di risorse paesaggistiche e minerarie. Che, sotto la guida dell’accorto principe saudita potrebbe presto unificarsi e crescere, se solo riuscisse a disinnescare la perdurante minaccia iraniana.

Soltanto due Paesi, tra quelli fuori dal coro, han piena certezza di conservare la propria libertà e indipendenza, come già accadde nel corso dell’ultima guerra: la Gran Bretagna e la Svizzera. 

La prima è ancora oggi la vera padrona dei mari. Non per le dimensioni della flotta o per potenza d’armamenti, ma per la quantità di basi navali sparse tra gli oceani e l’assoluta eccellenza del personale militare. 

La seconda è la Svizzera: fortezza naturale inattaccabile tanto da terra che dall’aria o dal mare, protetta da una milizia soggetta a leva obbligatoria (facoltativa per le donne) in grado di schierare oltre 200.000 soldati (800.000, al tempo della guerra fredda) a protezione di 8.200.000 abitanti. Anche nel malaugurato caso di un attacco nucleare, le centinaia di gallerie naturali e artificiali sarebbero sufficienti per ospitare e portare in salvo l’intera popolazione.

Tra i piccoli Stati senza padrone, quelli che hanno invece molto, moltissimo da perdere sono gli inermi staterelli europei: gli ultimi ancora in versione fai-da-te in un mondo fatto di Stati federati, confederati od uniti. 

Sono Stati confederali gli USA, ma anche la Russia (CSI), così come il Messico, il Canada, l’Australia, l’Argentina, il Brasile, gli Emirati Arabi, l’India, il Sudan, il Venezuela, la Malesia, la Svizzera... E persino nazioni UE come l’Austria, il Belgio, la Germania. 

L’Unione Europea, al contrario, non è ancora uno Stato. Né unitario, né federato. È un’unione fra nazioni indipendenti, regolata da trattati e completamente priva di rappresentanza e di potere, così come l’ONU. Non ha una Costituzione, non scrive leggi né può imporle. Perché non possiede un vero Parlamento, un Governo, una Magistratura, e neppure un Capo di Stato. Ancor meno può avere un esercito, una politica estera, una fiscalità comune. Neppure possiede quel minimo che si richiede a un qualsiasi Stato: dei confini definiti ed una sola moneta. 

Ed è conseguente debole. Debolissima. Seppure potenzialmente in grado di esprimere una forza immensa, certo superiore a quella di molti tra i suoi vecchi e nuovi nemici. 

È un gregge di ventisette pecore che pesa (e mangia) quanto un elefante, ma che resta comunque un gregge. Non sarà mai un elefante, a meno che non scelga di diventarlo, reincarnandosi in un sol corpo. 

L’elefante, a differenza del gregge, ha una sola testa. Se decide di sradicare un albero, dispone di un cervello per pensarlo e di muscoli per farlo. Un gregge ha ventisette teste: quand’anche s’accordassero tra di esse, agirebbero con maggior lentezza e senza alcuna certezza di riuscire nell’intento, Perché non è detto che tutti gli ovini impegnati a demolire l’albero operino con la medesima determinazione e la medesima la medesima forza. Non tutte le pecore sono di razza tedesca: ve ne sono anche di razza padana e ungherese. 

Qualsiasi scenario riservi il futuro, la solitaria India resterà una tigre difficile da domare, il Medio Oriente un cammello adatto a sopravvivere in quegli aridi luoghi, l’Africa un grosso gorilla insieme agile e possente, la Svizzera una talpa prudente e ben protetta, i Britannici una sorta di drago di Loch Ness, ben celato sott’acqua ma lesto ad emergere e a colpire. Quando necessario.

Solo l’Europa è uno sparso gregge, facile da dividere perché già diviso. Bottino ricco, immediato e appetitoso, per chi s’è proposto di spartirsi il mondo.

Eppure una soluzione ci sarebbe. Tutti la conoscono, a cominciare dai tanti che fingono di non conoscerla. Mario Draghi l’ha scritta nero su bianco, nel «Rapporto sulla Competitività UE» presentato a Bruxelles poche ore dopo le inattese minacce di James David Vance in quel di Monaco. 

È una ricetta tutto sommato semplice, quasi ovvia: «Agire sempre più come se fossimo un unico Stato»; «Abbattere le barriere interne, standardizzare, armonizzare e semplificare le normative nazionali»; «Costruire l'unità politica, per creare lo slancio per il cambiamento»; «Possiamo far rivivere lo spirito innovativo del nostro continente. Possiamo recuperare la capacità di difendere i nostri interessi. E possiamo dare speranza ai nostri popoli»; «Se le recenti dichiarazioni delineano il nostro futuro, possiamo aspettarci di essere lasciati in gran parte da soli a garantire la sicurezza in Ucraina e nella stessa Europa». 

Tutto è già stato detto, con dieci mesi d’anticipo, da chi ha avuto il coraggio di dirlo. Tutto è già stato capito, da chi ha avuto l’onestà di capirlo.

Non resta che metterlo in pratica: o l’Unione si fa Stato, o non avrà né forza né ragione d’esistere.   

Non è più tempo di gregge. È tempo di elefanti. 



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