«Una manovra di promesse tradite e tagli, sbagliata, di austerità, che non interviene sui salari, tra i più bassi d’Europa, ma aiuta i ricchi», è tutto quel che ha saputo opporre la deputata Elly, di professione aiutata ricca. Eppure, di quelle «promesse tradite» avrebbe dovuto esserne felice, anziché inviperita, dal momento che il «tradimento» danneggia colei che non le ha mantenute, mica chi le denuncia. E felice dovrebbe esserlo dei tagli, volti a contenere la spesa, così come del fatto che la manovra aiuti i ricchi: la fascia sociale alla quale ella-elly appartiene.
Quanto ai «salari» (scomparsi pressoché ovunque e sostituiti dagli «stipendi»), figli di un’Età Industriale estintasi da almeno un quarto di secolo, farsi valere (e farsi pagare) compete oggi a chi vende la propria opera, non a chi la compra. E, in ogni caso, il potere di stabilire per legge una paga minima (auspicabilmente non predeterminata, come vorrebbe l’opposizione, ma indicizzata al costo della vita), non compete ai governi, ma al parlamento. Del quale anche la deputata Elly Schlein fa orgogliosamente parte.
Altrettanto parlamentare è il francescano Frate Gianni, anch’egli impegnato a pietire elemosine («Niente sull’emergenza abitativa, niente per decine di migliaia di ricercatori che avreste potuto stabilizzare. È una legge di bilancio che non dà risposte e condanna a un futuro senza speranza»). E avrebbe potuto aggiungere: niente sul prezzo delle zucchine, niente sul clima che cambia, niente sui cattivi che non vogliono fare i buoni, niente sul traffico in Tangenziale... E via frignando.
Un’idea di «opposizione», a quanto è stato dato osservare, saldamente inchiodata al Terzo Principio della Termodinamica (made in Newton, 1687): «Ad ogni azione corrisponde una reazione pari e contraria».
Se il governo dice spesa, noi diciamo risparmio; se dice risparmio, noi diciamo spesa; se dice più tasse, noi diciamo meno tasse; se dice meno tasse, noi diciamo patrimoniale; se dice meloni, noi diciamo angurie...
È un gioco facile. Ma è un gioco in difesa. Che richiede alte strida ed infinite lagne affinché qualche fesso pagante in tribuna possa magari scambiarlo per chissà quale ben congegnata e vincente azione d’attacco.
È il gioco di chi è convinto che la giusta strategia per fermare chi procede dritto e sicuro lungo il proprio binario (quand’anche in direzione opposta o sbagliata) sia quella di far precipitare un masso sulle rotaie, così da interromperne la corsa. Scordandosi che il compito di una vera efficace opposizione dovrebbe piuttosto esser quello di costruirgli accanto un differente binario, alternativo ed orientato verso quella direzione dove, a parere del costruttore, sarebbe più utile, proficuo e veloce indirizzarsi, offrendo ai passeggeri un’ulteriore possibilità di scelta.
Sta tutta lì, infine, la sostanziale differenza tra una linea e una rete ferroviaria, tra un sistema monocratico e un altro democratico. Nel poter disporre non di una sola linea, per quanto veloce, ben servita, pulita, efficiente, ma di una rete di linee che consenta di scegliere tra molteplici destinazioni. Anche in coincidenza, se necessario: cambiando eventualmente treno qualora lo si ritenga più opportuno e conveniente.
Bloccare con una pietra il solo binario disponibile non estende in alcun modo la libertà di movimento. Al contrario, la limita o la cancella del tutto.
C’è fame di costruttori, oggigiorno. Non di distruttori. E ce n’è tanta: in Italia come in Europa e nel mondo. Ma è fame di costruttori veri. Non di chi sa soltanto ciarlare di ponti che non esistono e rifiuta di occuparsi di quelle strade e marciapiedi (disastrati) che invece esistono.
Non c’è ferrovia che non nasca da un solo binario. In Italia, Regno delle Due Sicilie, la Napoli-Portici del 1839, divenuta rete quando quell’unica linea diramò verso altre destinazioni.
Quali nuove direzioni propone, oggi, la paraopposizione newtoniana d’Italia? Forse quella del «sol dell’avantieri», ferma al «salario»? Quella «antifascista», inchiodata al 1943? Quella dei «poveri» (col 70% delle famiglie proprietarie o pluriproprietarie di case), nata nel 33 d.C. coi Vangeli? Quella del No a prescindere, nostalgica del 1968? Quella ghigliottinara delle rivolte di piazza (in tempi di comunicazione planetaria), marchiata Rivoluzione Francese (1789)?
Può forse una qualsiasi di quelle date – o una qualsiasi altra precedente l’imminente 2026 – incarnare una credibile idea di «Progresso»?
Certamente no.
E su quale treno potrebbe prender posto, oggi, un progressista determinato a muoversi in direzione di quel Progresso?
Sul variegato convoglio dell’attuale governo, certamente no. Per quanto la linea sia ben tracciata, i biglietti accessibili e le successive stazioni ben indicate (disarticolazione dei poteri dello Stato, manette ai magistrati, referendum, premierato, autocrazia, dittatura del governo), è un binario che conduce verso una sola destinazione, già visitata in passato ma evidentemente tornata di moda.
Sul variopinto treno dell’opposizione, ugualmente no. Per il semplice fatto che quel treno non esiste. E con ogni probabilità mai esisterà. Dal momento che nessuno pare intenzionato a costruirlo e, quand’anche lo fosse, i mancati ingegneri si scannerebbero l’un l’altro nell’inane tentativo, in un campo tanto largo, di indicare una meta che possa esser da tutti anche solo parzialmente condivisa. Auspicabilmente differente da quella a cui conduce quell’unico binario, triste e solitario, che il governo propone (ma che neppur così tanto dispiace a buona parte della sedicente «opposizione»).
No. Molto più facile interrompere le altrui rotaie posandoci sopra una roccia, un chiodo, un capriolo, un cinghiale.
Come se il non poter andare da nessuna parte fosse più «progressista» del muoversi in direzione sbagliata.
Come se non fossero entrambi, in diverso modo, due stratosferici errori.
Frutto entrambi di quella sostanziale inadeguatezza, incapacità ed ignoranza che, nelle persone volgari, si manifesta in una totale ed esclusiva attenzione per il presente, unita alla cancellazione del passato e all’incapacità di immaginare, se non di disegnare, un futuro.
Ed è in tanta nullità, che s’annega il pensier loro.

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