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C'era una volta il «salario»

Quasi commuove il disperato tentativo del fu piddì, accodato ai sansepolcristi a cinque zampe, di riaccendere gli animi di una sconsolata opposizione imbracciando la novecentesca bandiera del «salario minimo», conseguente evoluzione di più antiche lotte contro l’aumento del prezzo del gettone telefonico e la progressiva scomparsa delle cassette postali. Quelle sì, rosse. A differenza del tardocattolicesimo piddino e del protofascismo grillino. 

Se avessero invece chiesto e preteso, sfidando il fermo no dei sindacati dei pensionati, una «retribuzione minima» a vantaggio di chiunque lavori alle dipendenze di qualcun altro, nessuna battaglia sarebbe stata più giusta e più sacra. Ma come si può pensare di sollevare una nazione a difesa di un «salario» che nessun lavoratore in Italia percepisce più, sostituito ovunque dallo stipendio?

In un tempo fortunatamente lontano, il «salario» costituiva la paga dei lavoratori a ore. Agli albori dell’età industriale fu la retribuzione tipica degli operai in fabbrica. Si distingueva dallo «stipendio» perché non dava diritto né all’assistenza sanitaria, né alle ferie pagate, né al trattamento pensionistico.

Quanti, oggi, in Italia, ancora percepiscono un «salario»? Praticamente nessuno. 

A tale obiezione, l’ex partito del gettone telefonico risponde che si tratta di una mera questione nominalistica, e che per «salario» si debba intendere lo stipendio. Anzi: la paga. Anzi ancora: la retribuzione. E perché no: l’onorario, il corrispettivo, l’emolumento, l’indennità, la remunerazione, il compenso... A seconda del piede che mette giù per terra il piddino al risveglio. Sempre che decida un giorno di risvegliarsi. Come appare improbabile. 

Le parole hanno un senso. Quando da bambini si giocava a guardie e ladri, i due termini avevano ancora un opposto significato. Non meno di quanto ancora lo abbiano «salario» e «stipendio»: simbolo di sfruttamento il primo, di rispetto per il lavoro il secondo. Per chi spudoratamente si dichiara «progressista», parlare oggi di «salario» è un po’ come per uno scienziato nucleare discettare di caldaie e macchine a vapore. 

Ma esiste un più pericoloso errore di contenuto, oltre che di vocabolario, nella scalcagnata proposta dell’aspirante opposizione. Che consiste nel voler individuare una soglia retributiva minima (9 euro lordi per ora lavorata) senza tuttavia indicizzarla. Con l’inevitabile conseguenza che quella che potrebbe oggi apparire una paga dignitosa, cesserebbe immediatamente di esserlo al primo sussulto inflattivo. E un provvedimento che secondo i grilloarcobaleni dovrebbe segnare un epocale spartiacque nella Storia d'Italia, finirebbe col rivelarsi invece un insignificante palliativo temporaneo. Un paracadute decisamente piccolo per la futura dignità di chi lavora.

Un’equa soluzione potrebbe essere quella di ancorare il minimo retributivo alla soglia minima di sopravvivenza, che per il 2023 è stata fissata dall’INPS nella misura di 1.006,6 euro al mese. 

Dividendo tale cifra per 160 ore medie di lavoro (40 ore per settimana), si ottiene l’importo (netto) di 6,3 euro per ora, non molto distante dai quei 9 euro (lordi) attualmente richiesti, pari a 1.440 euro mensili (lordi). 

Una possibile proposta, pensata guardando al futuro e non soltanto alle prossime elezioni europee, potrebbe esser quella di indicare come retribuzione minima lorda una cifra pari a una volta e mezzo la soglia minima di sopravvivenza, così come annualmente determinata. 

Con tale calcolo, l’attuale cifra di 1.006,6 euro, moltiplicata per il coefficiente, genererebbe una paga minima di 1.509,9 euro mensili, pari (con 160 ore lavorate) a 9,4 euro lordi orari. Automaticamente aggiornati di anno in anno in base ai dati INPS. 

Troppo facile? Difficilissimo, per chi non sa né leggere, né scrivere, né far di conto. Ma certamente più equo. 

Non sarà come l’ormai defunto «salario», e neppure minimo, ma sarebbe pur sempre il doppio dell'altrettanto defunto reddito di cittadinanza. 


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