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Papà Natale è «di sinistra»?

L’inatteso irrompere sulla scena politica internazionale di un giovane di talento come Zohran Mamdani, novello Robin Hood con tre continenti nelle tasche, ha acceso nuovi e vecchi fuochi d’artificio tra l’esercito di reduci che si aggira all’interno della variopinta area dell’opposizione (a se stessi?) in Italia. 

Resta insoluta una domanda. Distribuire soldi a pioggia ai poveri e agli emarginati, sfilandoli dalle tasche di chi li possiede, è un’azione politica de sinistra?

No. Non lo è. Non può esistere sinistra, senza un’idea di progresso. Ed operare per mantenere artificialmente in vita ciò che è morto, sovvenzionando il maniscalco piuttosto che formare il gommista, non è un segno di progresso, quanto piuttosto di conservazione.

* * * * *

La definizione di «sinistra» nacque casualmente dopo la Rivoluzione dell’Ottantanove: quando nell’Assemblea Nazionale di Francia (1791) i parlamentari di orientamento più radicale scelsero di prender posto nell’ala sinistra della sala.

Pochi decenni dopo risuonò il verbo di Karl Marx (1818-1883), attento studioso sul campo (il Regno Unito) dell’evoluzione del lavoro in fabbrica dopo l’invenzione della macchina a vapore: l’Età Industriale: le sue origini, il suo presente, il suo futuro.    

Quel che diede il via all’Età Industriale fu una geniale intuizione: la frammentazione di una lavorazione complessa in una successione di lavorazioni elementari. Come nel film di Chaplin, gli ingegneri progettano, gli operai costruiscono. Con una potenzialità di crescita teoricamente esponenziale, grazie all’illimitata disponibilità di braccia inesperte e all’inedita potenza delle nuove fonti di energia. 

Ogni fabbrica aveva un padrone. E quel padrone non era lo Stato (gli Stati son lenti e goffi nel muoversi, e non investono nel nuovo, finché è incerto). Sul ruolo del padrone nel processo produttivo si concentrò l’attenzione di Karl Marx. Come poteva esser definito il contributo del padrone in fabbrica? Dirigenziale? No. Progettuale? No. Operativo? No.

Oggi potremmo forse definirlo finanziario: il padrone era proprietario dei mezzi di produzione, allora estremamente costosi per via delle inusitate dimensioni delle nuove fabbriche, per i macchinari necessariamente innovativi, per le rivoluzionarie fonti di energia, svincolatesi a carissimo prezzo dalla vicinanza dei corsi d’acqua e dal vento. 

Al gradino più basso del metodo di produzione industriale stava l’operaio: sottopagato perché sottopreparato, fornitore di braccia ma non di cervello. A differenza dell’antico artigiano, le cui mani erano capaci di trasformare in oggetti più o meno perfetti quel che, più o meno perfettamente, la sua testa immaginava, incarnando in una sola persona tanto il momento progettuale che quello produttivo.  

Karl Marx intuì in quella nuova «bracciantizzazione» del lavoro un’insita condizione di sfruttamento: non tanto per via della bassa paga, quanto per la facile e immediata sostituibilità degli addetti. Privi di qualsiasi arte, i licenziati non avrebbero mai potuto svolgere in proprio le semplici operazioni per le quali erano stati addestrati in fabbrica. Nessuno avrebbe mai potuto aprir bottega sotto l’insegna «Avvito bulloni» o «Levigo il legname». Pochi avrebbero persino saputo scriverla, quell’insegna. 

Indissolubilmente legata alla fabbrica, la condizione operaia era – se possibile – peggiore di quella sopportata dagli schiavi domestici nell’antica Roma. I quali, quanto meno, potevano godere di un tetto, di pasti assicurati, di assistenza sanitaria, di protezione personale, di igiene e persino di tempo libero: solo per essi nacquero lupanari e taverne a Pompei. Non certo per i patrizi.    

La prima considerazione marxiana fu che i nuovi operai, condividendo non solo il medesimo capannone, ma anche le. medesime modalità di lavoro, i medesimi orari, i medesimi salari, la medesima incertezza del futuro, potessero di fatto rappresentare una nuova classe sociale, differente tanto dall’aristocrazia che dalla borghesia. E così come quest’ultima – che prese il nome da quei «borghi» ricostituitisi tra feudo e feudo – dovette nell’Ottantanove cimentarsi in una rivolta armata per emanciparsi dalle continue quanto ingiustificate pretese dall’aristocrazia, anche la nuova classe sociale (il «proletariato») avrebbe prima o poi dovuto ribellarsi anch’essa al dominio della borghesia, proprietaria delle fabbriche. E poiché la sola componente umana inessenziale ai fini del processo produttivo era proprio il padrone, l’idea che nacque in Marx fu quella di liberarsene collettivizzando la proprietà dei mezzi di produzione. Delle fabbriche, dei macchinari, del vapore. 

Come andò a finire, lo raccontano i libri di Storia. 

In Europa la nazionalizzazione di diverse industrie, lungi dall’eliminare i padroni, li portò al potere. Piuttosto che abbandonare le fabbriche, occuparono i parlamenti. E fu subito Fascismo. 

In Russia, nonostante l’industria fosse in quelle contrade un’entità del tutto sconosciuta, l’ideale marxista diede forza, col dovuto ritardo, ad una rivoluzione non certo «proletaria», ma sostanzialmente antiaristocratica, militare e borghese. 

Non dissimilmente avvenne poco più tardi in Cina (1949), e non per mano degli (inesistenti) operai, ma dei contadini.

Nulla accadde invece in Gran Bretagna, culla dell'Età Industriale, dove la prima rivoluzione proletaria ara a rigor di logica attesa.

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L’Età Industriale, in Occidente, ha da qualche decennio esaurito il proprio compito. E insieme a quello la sua stessa ragione di esistere. I ricchi mercati dell’Ovest sono saturi: le case traboccano di oggetti, le strade di automobili, i mari di grandi navi, i cieli di aerei. Neppure esiste più un vero padrone: i mezzi di produzione, un tempo inarrivabili a chiunque non potesse disporre di immensi capitali, stanno oggi nelle tasche di chiunque. 

Con un piccolo telefonino – basta saperlo usare – è possibile scrivere e pubblicare un libro, girare un film, trasmettere per radio o per televisione, editare un giornale, operare sui mercati finanziari, istruire, commerciare, divertire, reclamizzare, predicare, giocare, scommettere... 

Non si possono fabbricare oggetti, è vero, ma è possibile progettarli e disegnarli. A realizzarli, poi, ci penseranno le macchine. Quelle delle fabbriche – oggi largamente o totalmente automatizzate – o persino una comune stampante 3D dall’angolo di una scrivania. 

Ma esiste ancora, in Occidente, quell’antico bisogno di oggetti che oltre un secolo di invenzioni e produzioni parrebbe aver infine saziato? 

Forse in Africa, dove una nuova Età Industriale è già alle porte. Non più in Oriente, dove automazione dei processi e saturazione del mercato sono da poco tempo una realtà. Certamente è viva in India, dove il tessile e l’auto alimentano una produzione mai così fiorente.  

In Europa la fine dell’Età Industriale ha ridato fiato all'artigianato d’eccellenza, i cui prodotti – si tratti di orologi, di moda o di automobili – non hanno limiti di prezzo. Oggetti il cui valore è determinato dai contenuti, dalle idee, piuttosto che dalla materia. Ed è questa la vera ricchezza nel mondo del Terzo Millennio: la conoscenza, il sapere, le idee. 

L’Oriente può anche produrre tutti i televisori, i telefonini ed i computer del mondo, ma non riesce a riempirli di contenuti. In rete vanno i film, i format, le musiche dell’Occidente. Ed anche computer e telefoni marciano grazie a software e sistemi operativi nati sulla costa americana del Pacifico.

* * * * * 

La fine dell’Età Industriale in Occidente non è stata del tutto indolore. Tra i più problematici (e visibili) effetti vi è certamente il riversarsi in strada di milioni di persone prive di qualsiasi formazione o competenza. Individui un tempo celati al mondo dietro le spesse mura delle fabbriche ed oggi attendati sui marciapiedi di San Francisco, New York, Los Angeles. Inutili ed affamati. Impossibilitati a dare un valido contributo in un mondo che non ha più bisogno di braccia ma di cervelli. Senza nessuno che sappia indirizzarli verso un futuro che pure promette meno fatica in cambio di un maggiore sapere.

* * * * *

— Che fare? — avrebbe chiesto Vladimir Ilič Uljanov Lenin.

Gramsci avrebbe risposto: — Istruiamoli! 

Trump: — Riapriamo le fabbriche e ributtiamoceli dentro!

Putin: — Mandiamoli a morire in battaglia!

La Chiesa cattolica: — Aiutiamoli!

Salvini: — Cacciamoli!

Zohran Mamdani: — Regaliamo loro tutto quel di cui necessitano per vivere!

Gramsci non è più tra noi, ma la sua è la sola risposta indiscutibilmente di sinistra. L’unica davvero progressista. La sola in grado di far marciare un mondo che (fortunatamente!) necessita oggi di meno braccia e più cervelli.

Quella di Trump è la falsa illusione di chi pensa sia sufficiente (e possibile) regredire a un mitizzato passato del carbone e dell’acciaio perché tutto torni come un tempo: con gli operai chini alla mola e il padrone a far bisboccia. 

Quella di Putin non è che elementare aritmetica da cavernicoli: meno bocche (vive) da sfamare, più cibo per chi se la gode tra gli stucchi del Cremlino.

Quella della Chiesa richiederebbe un’ormai perduta abilità nel moltiplicare il pane e i pesci, e promuovere l’acqua in vino.

Quella di Salvini nasce dall’antica convinzione che solo gli Italiani siano i buoni (meglio se Padani) e tutti gli altri i cattivi. E che ogni male, da Annibale in poi, giunga dalla Alpi o dal mare. Piuttosto che dai mal frequentati palazzi romani.

Quella di Mamdani è l’idea che i soldi si annoino nelle gonfie tasche dei ricchi e si divertano di più in quelle dei poveri. I quali han tuttavia il difetto che, meglio che dar vita a grandi imprese, amano talvolta spenderseli in birra, sballi, scommesse e grattaevinci.

La notizia del giorno è che, agli occhi della diversamente disorientata italica opposizione, tra tutte queste possibili risposte ai sommovimenti suscitati dalla fine dell’Età Industriale, quella considerata più de sinistra è proprio l’ultima: sottrarre i soldi a chi li ha per darli invece a chi non li ha. 

Nobile idea (per i ladri). Ignobile (per i derubati). Ma in nessun caso qualificabile come «di sinistra». 

Per tre inoppugnabili motivi. 

Il primo è l’errata pretesa di poter sostituire il defunto proletariato con i semprevivi poveri. Dimenticando che mentre i proletari soffrivan tutti della medesima malattia – lo sfruttamento –, i poveri sono invece tali per i più disparati motivi: chi per tragica sventura, chi perché schiavo dei vizi, chi per libera scelta, chi perché derubato dei beni... E via impoverendo.

Il secondo è che, spiumando i ricchi per arricchire i derelitti, nulla cambierebbe nella distribuzione del denaro nel mondo: ruotare la scacchiera non muta il rapporto tra i pezzi bianchi e i pezzi neri. Si limita a cambiarne il colore.

Il terzo è che, scomparso il proletariato, e con esso il sogno rivoluzionario, l’unico sol dell’avvenir oggi in grado di splendere non può esser altro che il Progresso. Solo il Progresso è davvero de sinistra

Per un politico, ostacolare il Progresso è assai più semplice che governarlo. Perché il Progresso viaggia sempre con due valigie: una colma di promesse, l’altra di minacce. Colombo porta nelle Americhe nuove armi e nuovi saperi – tra cui l’uso del cavallo, senza il quale mai sarebbe esistito John Wayne, e neppure Toro Seduto – ma introduce senza saperlo i germi di sconosciute malattie, che finiranno per sterminare millenari imperi. Così la scoperta dell’atomo può oggi fornire illimitata energia a basso costo all’intero pianeta, ma può anche polverizzarlo. 

Opporsi al Progresso è facile. Guidarlo a vantaggio dell’umanità è assai più difficile. Per le forze della reazione, che il Progresso lo combattono, la strada è sempre in discesa. Per quelle che lo perseguono, sempre in salita. Ma solo inerpicandosi si può sperare di arrivare un giorno in cima. E nessuno può negare che, dalla clava ai satelliti, il mondo non sia finora andato, seppur con differente velocità, in quella giusta direzione. Forse perché le strade eccessivamente in discesa accelerano il passo di chi le percorre, conducendole in breve tempo a schiantarsi. Come la Storia troppe volte insegna.  

Quella del Progresso, per quanto lunga e faticosa, è la sola via degna d’esser percorsa. 

Tuttavia, un certo populismo malamente camuffato, confidando nell’aritmetica osservazione che i poveri sono comunque più numerosi dei ricchi – e il loro potenziale consenso elettorale ben più consistente dei pochi spiccioli che hanno in in tasca – ha pensato bene di farsi Chiesa e di rivolgere il proprio impegno non tanto verso il Progresso, ma verso gli «ultimi».

Nobile proposito. Ma dovrebbero, come San Francesco, spogliarsi prima delle loro sostanze. O, come il Cristo, morire per loro sulla croce. E se è vero che molti sono i ricchi che più o meno celatamente lo fanno, spendendosi in opere di beneficenza, non si ha notizia di politici usi a fare altrettanto. Generosi sempre, purché a proprio beneficio e a spese della collettività. 

Si atteggiano a Robin Hood, spacciando per eroe rivoluzionario un aristocratico detronizzato che aizzava i derelitti non certo per elevarli, ma per spodestare il governante di Nottingham e riprendersi il potere. Le teste dei fessi son sempre state gli scalini dei furbi.

Ma adesso c’è un nuovo eroe da inseguire. Non più il malandato arciere della foresta di Sherwood, ma il sindaco della città che è stata (e ancora è) per gli Europei la porta delle Americhe: Zohran Mamdani, portatore sano di cervello, più che di braccia.

Le appetitose promesse del programma elettorale lo han facilmente condotto alla vittoria. Ma si riveleranno poi altrettanto efficaci nel dare una sistemazione in città a milioni di persone che non han motivo alcuno per voler risiedere su un territorio che più non necessita della loro presenza? E, soprattutto, miracolosamente riuscendoci, potrebbe quello legittimamente ritenersi come il trionfale esito di una politica «di sinistra», o non piuttosto l’ennesimo bonus di non-cittadinanza d’antica ispirazione grillolegaiola? Provvedimento palliativo ma non curativo, forse temporaneamente in grado di sfamare qualcuno ma incapace di restituire dignità umana a chi per colpe non sue l’ha perduta?  

Denaro a pioggia, mezzi pubblici gratuiti, alloggi gratuiti, vita a sbafo non sono «di sinistra». Sono piuttosto un nuovo sistema di sfruttamento con il quale nuovi padroni assumono il controllo di sempre più larghi strati di popolazione, rendendoli di fatto dei mantenuti. Dipendenti in tutto e per tutto dei loro ghiribizzi, dei loro fini, dei loro voleri. 

Libero è chi può aprire o chiudere con le proprie mani il pur piccolo rubinetto da cui si abbevera. Non chi alza la testa al cielo in attesa di scrosci d’acqua che altri decidono come e quando erogare. 

È forse quello il progresso? O non è piuttosto un ritorno all’età delle caverne, quando il bene o il male non potevano che piovere dall’alto?

Zohran Mamdani non è un capo di Stato o un governatore: è un pubblico amministratore. Sta a lui decidere come e dove spendere il denaro che la città di New York accumula ogni anno attraverso tasse e imposte. Potrà usarlo per mantenere l’esistente o per migliorarlo. Nel primo caso sarà un conservatore, nel secondo un progressista. Ma non è distribuendo helicopter money che si crea la ricchezza. Prima seminare, poi raccogliere, infine distribuire. Soltanto a chi lo merita. 

Neppure Babbo Natale regala doni a chiunque: solo ai bimbi buoni. E la Befana ancor peggio, perché gli immeritevoli li cosparge di carbone.  

* * * * *

Buona parte dell’entusiasmo suscitato dalla nomina di Zohran Mamdani si deve alla sua vittoriosa contrapposizione con Trump: una carta elettorale vincente quanto inutile, dal momento che i due non avranno mai alcuna occasione presente o futura di confrontarsi da pari a pari sul medesimo campo. Non più di quanto un pugile abbia modo di incontrare un tennista, o uno sciatore un cestista. 

Eppure, agli occhi di certa italica opposizione, Mamdani possiede la statura di un novello Messia. Di una Sinistra vendicatrice di ogni plutocrazia incarnatasi nel Salvatore degli umili. E quanto più i movimenti di opposizione in Italia sono conservatori e retrivi, tanto più come figlio di un Dio della Sinistra lo acclamano.

In prima fila i francescani di Frate Gianni con il verduraio Bonelli. Che c’è di più conservatore del tornare a sbombolettare sui muri i cari vecchi slogan rivoluzionari, anche se ormai privi di senso? Fanno comunque colore. 

A seguire i cinquegrilli, sempre a caccia di denaro altrui per alimentare la fonte magica del reddito (meglio dire: rendita) di cittadinanza (anche quando distribuito a chi cittadino non è).

Ultimo il movimento armocromista, sempre pronto a cambiar colore col passare delle, come un cielo tropicale. Che luminosamente si accende di rosso al primo sentore di imposta patrimoniale.

Cosa tutto ciò abbia a che fare col Progresso, nessuno di questi è in grado di spiegarlo. Incapaci di scegliere tra la strada in discesa e quella in salita, han scelto piuttosto di girarci attorno, di spendere ogni energia nel denunciare la pagliuzza nell’occhio dell’avversario ignorando la trave nel loro.

Mamdani è una bella bandiera, ma è non l’arma finale. È un uomo di spettacolo, come chiunque altro in America, si chiami Kennedy o si chiami Trump. Un Batman o un Superman, magari. Ma non il Messia.

Le questioni di casa si risolvono in casa. Avendocene una, anziché un campo. Magarli largo, ma privo di tetto, di arredo, di pareti. Quella casa che l'opposizione, in Italia, ancora deve progettare e costruire. E forse, un giorno, abitare.   

Eppure, nessuno potrebbe deisderarte in Italia un avversario più inconsistente dell’attuale maggioranza parlamentare: debole, litigiosa  incapace, maleducata, ignorante, rancorosa, inefficace. Mezzo soffio di cerbottana sarebbe sufficiente per spedirla a gambe all’aria. Ma nessuno pare in grado di espirarlo. 

E in quell’aria ferma, gonfia soltanto di strilli e di parole, anche il debole venticello che arriva dall’altra sponda dell’Atlantico pare aver la forza di un tornado.  

Ma non lo è. 

 

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