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Vincere, o vinceranno!

Come andrà a finire, già lo sappiamo. Tra cinque o dieci anni gli stessi Americani ci faranno un film, e lo intitoleranno «Un buzzurro alla Casa Bianca». Il mondo lo vedrà e si sbellicherà dalle risate. 

Forse anche prima: Chaplin non ha atteso il 1945 per beffarsi di Hitler e Mussolini ne «Il grande dittatore»: la pellicola stava in sala già dal 1940, ben prima che gli USA entrassero in guerra. 

Quanti saranno i sopravvissuti in grado di vederlo, dipenderà da noi. Da una manciata di Stati liberi ancora presenti in Europa ma troppo occupati in piccole beghe condominiali per comprendere che, sullo scacchiere internazionale, quel pugno di nazioni sparpagliate e divise rappresentano per USA, Russia e Cina non un nemico o un avversario da combattere, ma un appetitoso bottino. Una refurtiva fatta di volgare cartamoneta, per il palazzinaro Trump; di ricchi irrinunciabili mercati, per Xi Jinping, di vendicativa sete di rivincita e rabbioso muso duro per il bullo di periferia Putin.

Questo è la sostanza di quanto trapelato dai colloqui di ieri tra Casa Bianca e Cremlino, dove il bottegaio americano e il macellaio russo confermano l’intenzione di volersi spartire le spoglie di un’Ucraina rasa al suolo e ridotta a sentiero di passaggio verso quella mezza Europa ex-sovietica che Putin reclama, insieme al Mar Nero e al Mar Baltico, offrendo in cambio via libera a Trump sul fronte sud e nord degli States, a partire dal Venezuela, il contendente più debole, fino all’odiato reame britannico del Canada.

A Putin non premono né i mercati (la Russia nulla produce e nulla ha da vendere, se non quel che raccoglie in casa, tra oro, diamanti, gas, petrolio e uranio), né i territori (è lo Stato più vasto al mondo). 

A Putin serve il mare, per farci galleggiare quella grande flotta che al momento non ha e non può avere, limitata com’è a qualche sommergibile nascosto sotto i ghiacci e a qualche naviglio armato, malamente camuffato da innocente peschereccio.

Se lo scenario è questo, qualche domanda i minacciati staterelli europei dovrebbero pur porsela. 

Prima fra tutte: può un inanimato bottino impedire ad un ladro di impadronirsene? 

La risposta è sì, se sta dentro una cassaforte inespugnabile qual era, fino a qualche mese fa, la NATO. Ma anche no, se sta invece dentro una debole scatola di cartone. O, peggio ancora, suddiviso in ventisette scatoline di differente robustezza e grandezza.  

Anche un tesoro in cassaforte, tuttavia, per sentirsi al sicuro necessita di guardiani che lo difendano. O, quanto meno, lo sorveglino. E il consistente bottino europeo un guardiano non ce l’ha. O meglio, ne ha ventisette: minuscoli ed intenti ciascuno a tener d’occhio i pochi metri del proprio cortile. Con un impegno inversamente proporzionale alla distanza che li separa dal fronte di guerra: quello che corre giù dall’Ucraina fin su verso la Norvegia.

Quanto starebbe al sicuro l’oro di Fort Knox, se anziché in un’inespugnabile fortezza fosse racchiuso in ventisette tra piccoli e medi magazzini, sorvegliati da ventisette differenti istituti di vigilanza? Un invito a nozze, per qualsiasi ladro.

Divisi, calpesti e derisi erano gli staterelli italiani, prima del 1861. Divisi, calpesti e derisi sono oggi gli staterelli europei, di fronte alla teppaglia incistatasi sui più alti scranni di USA, Russia e Cina. Fin quando non troveranno in sé il coraggio per dar vita a un vero Stato Federale Europeo, dotato di un minimo essenziale di poteri legislativi, esecutivi e giudiziari. Che si ponga davanti al macellaio, se non altro, come bestia ancora da uccidere e macellare, piuttosto che già tagliata, confezionata ed esposta in bella vista su uno scaffale attorniato da taccheggiatori.

Un barlume di speranza pare giungere da quei pochi Stati etichettatisi come «volenterosi», che paiono aver colto la gravità del momento, così come l’inadeguatezza dell’attuale costruzione politica europea, fondata non su di un solido e condiviso Statuto ma su labili trattati fra nazioni. 

È tempo di unificare l’Europa e magari, giusto per dare al mondo un segnale, «denazificare» Kaliningrad, intollerabile spina nel fianco di un continente che aspira a divenire uno. Ed è tempo di stringere nuove alleanze con quei Paesi che, ancor più dell’Unione, temono la corsa al mare delle tribù della steppa. Come la Turchia, che vede a rischio il proprio ruolo di guardiano del Mar Nero, o l’India, desiderosa di emanciparsi dalla Cina e presente su tutti i mercati coi suoi marchi automobilistici europei, da Jaguar a Rover a Stellantis, o la Gran Bretagna, padrona dei mari e direttamente minacciata in Canada e in Australia. 

In attesa che ciò avvenga, due sono le strade immediatamente percorribili: 1) rafforzare l’Ucraina come forza di interposizione a difesa della frontiera comunitaria di Schengen; 2) rafforzare politicamente e militarmente l’Unione, l’Eurozona e l’Area Schengen, accelerando la nascita di un nuovo Stato unitario dotato di una difesa e di una politica estera comune. 

La buona notizia è che cresce il numero di coloro che di tale inderogabile necessità paiono infine aver preso coscienza.

La brutta notizia è che decresce invece di ora in ora il tempo rimasto a disposizione.

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