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Dieci sconfinate menzogne

1) Le frontiere fra nazioni non hanno più alcuna ragione di esistere.

Chi davvero lo pensa, dovrebbe per coerenza lasciare aperto di notte il portone di casa. 

Quel che fa di un edificio un’abitazione son proprio le presenze umane che lì ci vivono, e il portone di casa è il limite che segna il confine tra il mondo di dentro (tendenzialmente amico) e il mondo di fuori (tendenzialmente nemico). 

Starsene in casa propria non significa però autocondannarsi agli arresti domiciliari. Il portone lo si apre più d’una volta: per accogliere le persone gradite che vengono a farci visita, ma anche chi lo varca per ragioni di lavoro, dal portalettere all’idraulico. Talvolta anche per il mendicante che bussa alla porta in cerca di qualche elemosina. 

Resta però ben chiuso di fronte a chi pretende di entrarvi di nascosto e con la forza. Peggio ancora se nottetempo, dal balcone o dalle finestre. 

C’è un campanello. Suonarlo significa chiedere il permesso di entrare. Concederlo o meno, resta una prerogativa del padrone di casa. 

E se è vero che una casa priva di portone non sarebbe più una casa, ma giusto un riparo, un rifugio, un ricovero, una tana, allo stesso modo un Paese senza frontiere non sarebbe più una nazione, ma un’area qualsiasi del pianeta, un territorio indistinto, una landa desolata. Quel che si dice: terra di nessuno.

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2) Chi sbarca sul suolo italiano è entrato in Italia.

No. Persino chi sbarca da una nave da crociera, quando posa il piede sulla banchina del porto non è ancora in Italia, ma in una zona franca dove neppure è tenuto a mostrare i documenti. Che dovrà invece esibire al valico di frontiera che circonda la banchina. Passato il quale, l’ingresso nel Paese è perfettamente legale, ma non così la permanenza, la cui durata è regolata da norme nazionali che variano da Stato a Stato. 

Un visto turistico, in Italia, consente di trattenersi per 90 giorni, ripetibili ma intervallati da un periodo oltre frontiera di almeno 180 giorni. 

Un visto per motivi di studio ha la durata del corso che si intende frequentare. 

Un visto per motivi di lavoro dura un anno, se l’occupazione è a tempo determinato. Due, se indeterminato.   

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3) Gli esseri umani devono esser liberi di spostarsi e scegliere il luogo in cui vivere.

Lo sono. Ma le libertà non vanno confuse con la sregolatezza. 

Per spostarsi in auto sulle strade italiane occorrono una patente di guida in corso di validità e un’auto revisionata, assicurata e a norma. E occorre tenere la destra, fermarsi davanti al semaforo rosso, dar la precedenza ai pedoni sulle strisce... 

Poca libertà? No: un insieme di norme che consentono al maggior numero possibile di persone di godere in piena sicurezza di quella libertà. Il mio semaforo rosso è il tuo semaforo verde, e viceversa. 

In quanto a regole, al momento è infinitamente più facile per un Algerino spostarsi (legalmente) in Italia che non per un Italiano recarsi (legalmente) in Algeria, le cui norme di ingresso sono assai più restrittive di quelle europee, quando non addirittura ostative. 

Esistono delle norme. Se si vuole entrare dalla porta e non dalla finestra, è sufficiente recarsi al Consolato in loco, fare una richiesta, sostenere un colloquio e attenderne l’esito. 

Troppo lungo e complesso? Forse sì, ma lo è anche per chi dall’Italia intende trasferirsi in un’altra nazione. 

Ma non si può, in nome di quella libertà senza limiti che è propria soltanto degli animali, e non degli uomini, pensare di poter calpestare impunemente ogni regola.   

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4) I confini dell’Italia sono i confini dell’Unione Europea. 

No. I confini dell’Italia non sono i confini dell’Unione Europea, ma sono i confini dello spazio Schengen, istituito da un trattato al quale non hanno aderito alcuni Paesi comunitari (Cipro, Romania, Bulgaria, Irlanda) ma di cui fan parte altri Paesi extracomunitari come Svizzera, Liechtenstein, Norvegia e Islanda. Oltre ai minuscoli San Marino, Monaco e Vaticano.

Ne consegue che l’Unione Europea, che già di per sé non dispone di alcun potere o competenza in materia di confini nazionali e politica estera, ancor meno potrebbe averne nei confronti di quegli Stati che dell’Unione neppure fanno parte. 

Se l’Unione non può dettar legge (e neppure pensare di scriverla) alla Germania o all’Italia, come potrebbe imporre qualcosa alla Norvegia o alla Svizzera? 

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5) L’Italia può comportarsi come meglio crede, circa i propri confini. 

No. Proprio perché i confini italiani sono i confini dello spazio Schengen, l’Italia è soggetta al rispetto della Convenzione di Schengen, sottoscritta nel 1990 ed entrata in vigore nel 1995. 

L’insieme di norme si basa su un esplicito scambio: si allentano i controlli alle frontiere interne fra gli Stati membri, ma in cambio si rafforzano i controlli alle frontiere esterne.  

I requisiti per l’accesso sono regolati dall’art. 5 della medesima Convenzione, che per un soggiorno non superiore a tre mesi richiede di «essere in possesso di un documento o di documenti validi che consentano di attraversare la frontiera [...]; b) essere in possesso di un visto valido, se richiesto; c) esibire, se necessario, i documenti che giustificano lo scopo e le condizioni del soggiorno previsto e disporre dei mezzi di sussistenza sufficienti, sia per la durata prevista del soggiorno, sia per il ritorno nel Paese di provenienza o per il transito verso un terzo Stato nel quale la sua ammissione è garantita, ovvero essere in grado di ottenere legalmente detti mezzi; d) non essere segnalato ai fini della non ammissione; e) non essere considerato pericoloso per l’ordine pubblico, la sicurezza nazionale o le relazioni internazionali di una delle Parti contraenti».

L’Italia non ha di fatto mai ottemperato a quanto disposto dall’art. 5 della Convenzione. Ponendosi così, agli occhi degli altri Stati membri, dalla parte del torto. 

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6) I Paesi confinanti violano le norme, quando impediscono l’ingresso ai clandestini che dall’Italia tentano di varcarne i confini.

No. Il comma 2 del medesimo art. 5 della Convenzione di Schengen lascia a ciascuno Stato membro la scelta di concedere permessi di soggiorno in deroga, per motivi umanitari o quant’altro, ma in tal caso il beneficiario non potrà lasciare il Paese che lo ha concesso: «L’ingresso nel territorio delle Parti contraenti deve essere rifiutato allo straniero che non soddisfi tutte queste condizioni (quelle dell’art. 5, NdR), a meno che una Parte contraente ritenga necessario derogare a detto principio per motivi umanitari o di interesse nazionale ovvero in virtù di obblighi internazionali. In tale caso, l’ammissione sarà limitata al territorio della Parte contraente interessata che dovrà avvertirne le altre Parti contraenti». 

I Paesi confinanti hanno dunque non soltanto il diritto, ma il dovere, di impedire l’ingresso a chiunque sia privo di documenti validi (come i fuggiaschi o i clandestini), e anche a chi dispone di regolari di permessi di soggiorno in deroga rilasciati dall’Italia e pertanto validi solo sul territorio italiano.    

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7) L’Italia è fra i Paesi europei, quello più esposto ai flussi migratori irregolari.

No. Come si studia sin dalle scuole elementari, pochi Paesi al mondo possono vantare confini certi e invalicabili come l’Italia, circondata dal mare e cinta dalle Alpi. 

Tant’è che chi arriva oggi «in Italia», giunge in realtà a Lampedusa: 140 km dall’Africa ma ben 210 km dalla Sicilia. 

Più vantaggiosa la meno trafficata rotta adriatica. Che in ogni caso, coi suoi 75 km (più che la Tunisia-Pantelleria), è decisamente superiore alla distanza che separa l’Africa dalla Spagna: 0 km, se si considerano le enclaves di Ceuta e Melilla; 15 km, se ci si imbarca via Gibilterra. 

Lo stesso si può dire per la Grecia, che dista appena 2 km di mare dalla Turchia. Percorribili anche a nuoto. 

Di gran lunga più permeabili e difficili da controllare, infine, sono i pianeggianti confini terrestri della Polonia e dei Paesi Baltici, la cui protezione ha richiesto la costruzione di muri, recinzioni, reticolati.

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8) L’Italia ha bisogno di braccia: ben vengano dunque i braccianti.

Con la fine dell’età industriale, la richiesta di «braccia», ossia di persone prive di formazione ma immediatamente occupabili in quei lavori che di formazione non ne richiedevano alcuna (avvitare bulloni, trasportare secchi di calce, scavare miniere) ha in Occidente lasciato il posto alla richiesta di cervelli: oggi i bulloni li avvita una macchina a controllo numerico, i secchi di calce li solleva una gru e le vecchie miniere son chiuse da un pezzo. 

La crescente denatalità in Italia certamente comporta che chiunque arrivi in Italia per svolgere un lavoro utile alla comunità debba quantomeno considerarsi benvenuto, e la Storia recente narra di comunità straniere perfettamente integratesi, da quella cinese alle molte dell’Est europeo. Ma resta difficile immaginare, ad esempio, come e dove poter collocare un cacciatore di elefanti del Botswana in una terra dove da qualche millennio quel mammifero è ormai definitivamente scomparso.

Occorrerebbe muoversi su più fronti: da un lato rendere attrattiva l’Italia per chi è già in possesso di una formazione quanto più possibile qualificata, dall’altro individuare mestieri a formazione zero in grado di assorbire grandi quantitativi di mano d’opera senza preparazione alcuna. 

Uno di questi è certamente l’attività di vigilanza e guardiania, che neppure richiede la conoscenza della lingua. E in quei Paesi dove la differenziazione dei rifiuti la si fa a valle e non a monte, molti sono gli addetti privi di formazione che vi lavorano. Ed è ancora utile ricordare come l’Italia del secondo dopoguerra abbia fatto fronte agli improvvisi bisogni di tante famiglie rimaste senza tetto dopo i bombardamenti, diffondendo nei condomini l’uso del portierato: attività in grado di assicurare a un tempo una casa e una paga a chi improvvisamente aveva perso tutto. 

Sfruttare i disperati per la raccolta stagionale nei campi, è invece una pratica alla lunga controproducente, che va in direzione opposta alle più avanzate tecniche di produzione agricola: quelle che han consentito alla Spagna di superare di gran lunga l’Italia. Grazie all’ottimizzazione delle superfici destinate a colture di stagione, primizie e tardive che consente di impiegare per tutto l’anno la medesima quantità di addetti, garantendo stabilità occupazionale e fidelizzazione aziendale.   

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9) Chi è in fuga da una guerra ha diritto d’asilo.

Sì. Ma soltanto in Italia. E non in virtù di trattati internazionali come la Convenzione di Schengen o quella di Ginevra (1951), ma dell’art. 10, comma 3, della Costituzione Italiana: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge».

Praticamente chiunque non goda nel proprio Paese dei medesimi diritti di cui godono i cittadini italiani, ha diritto d’asilo in Italia. 

Ma, si badi bene, solo in Italia. Come dal citato comma 2 dell’art. 5 della Convenzione di Schengen. 

Si tratta dei cosiddetti permessi umanitari, rilasciati in deroga alla Convenzione, la cui validità è limitata al Paese che di propria iniziativa, in base alle proprie leggi, li ha rilasciati. 

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10) I flussi migratori ci son sempre stati: si tratta di un fenomeno «epocale» che non è possibile fermare.  

Bella frase perennemente in bocca alla anime belle, il cui poco profondo significato sta nel volersene, dell’intera questione, pilatescamente lavare le mani. Spacciando per fenomeno naturale («c’è sempre stato e sempre ci sarà») quello che è invece un fenomeno culturale: opera dell’Uomo, non della Natura.

La differenza non è da poco, perché se è vero che non si può in alcun modo impedire una tempesta o un terremoto, si può al contrario intervenire su un processo geopolitico che trae in gran parte origine dalla diffusione di sistemi di comunicazione globale che hanno improvvisamente portato sotto gli occhi di chiunque le troppe disparità ancora presenti su questo vecchio pianeta: la capanna e il grattacielo, l’asinello e la Tesla, la piroga e lo yacht, l’oppressione e la libertà...

La vista genera appetito, e l’appetito spinge all’azione. Che prende troppo spesso la forma di una zattera senza motore trainata al largo e lì abbandonata in attesa che qualcuno la soccorra. Il tutto al modico prezzo di un volo in prima classe con caviale e champagne. 

Molti di questi sogni finiranno per rivelarsi poi nient’altro che tali, al contatto con la cruda realtà. 

Troppi Italiani presero un tempo la via delle Americhe per diventare miliardari, e poi tornar poveri al paesello dopo una vita spesa a scavare carbone o a posare rotaie. 

Troppi stranieri clandestini finiscono per strada a delinquere e servire più mafie: quelle nostrane e quelle del loro Paese. Le stesse che, a caro prezzo, in Italia ce li han portati. 

Occorrerebbe forse veicolare una narrazione più autentica delle realtà occidentali, della realtà italiana. Non esiste più un cinema o una letteratura in grado di raccontarle. Il neorealismo è morto da un pezzo e l’argomento principe di ogni racconto è l’unica e  particolare conformazione dell’ombelico dell’autore o del regista. Argomento di estremo interesse, ma solo e soltanto per loro. 

Occorrerebbe utilizzare quei medesimi canali di comunicazione globali che – non diversamente dalla Hollywood che fu – accendono oggi troppe illusioni e speranze, per trasmettere invece qualche etto di sana quotidiana realtà: di che cosa si viva oggi in Italia, quali occupazioni siano le più richieste, quale formazione sia necessario possedere, quanto possa esser utile apprendere per tempo la lingua, quali opportunità di crescita il Paese possa offrire loro. 

E se anche fosse vero che i flussi migratori non si possono fermare, è ancor vero che si possono regolare. Come è sempre accaduto, e ancora accade, in tutti quei Paesi – europei e non – diversi dall’Italia. 

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Occorre come primissima cosa liberarsi da quel termine assolutamente fuorviante e privo di significato che è la parola «migranti». Forse intesa come protagonisti di «migrazioni» (fenomeno «epocale»!) ma ben diversa dal significato reale che, propriamente riferito ai volatili, indica quelle specie che stagionalmente vengono e vanno. Non quelle che vengono, e poi restano. 

Quelle si chiamano «immigrati», quando si stabiliscono nel Paese che li ospita, e «immigranti» quando ancora stabilizzati non sono. 

Allo stesso modo, agli occhi dei conterranei rimasti in patria, si chiameranno «emigrati» o, nell’attesa, «emigranti». 

Se poi sono in fuga da qualche catastrofe naturale o da una guerra, saranno allora dei «profughi». 

Se invece sono in fuga perché ricercati per uno o più crimini, o inseguiti dai creditori, il loro corretto nome sarà quello di «fuggitivi», o «fuggiaschi». 

Se poi pur senza documenti riusciranno comunque ad attraversare clandestinamente la frontiera, saranno giustappunto dei «clandestini». O, più elegantemente, dei «sans-papiers».

Se chiederanno asilo ai sensi della Convenzione di Ginevra, quali perseguitati politici, saranno prima dei «richiedenti asilo», ed infine dei «rifugiati». 

Se invece chiederanno protezione umanitaria, saranno anch’essi (ma solo in Italia) dei «richiedenti asilo», ed infine «titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari». 

Se non riusciranno a raggiungere le coste italiane e verranno salvati in mare, saranno dei «naufraghi». Un po’ particolari, visto che per naufragare hanno pagato un bella cifra e, a differenza dei veri naufraghi, che non desiderano altro se non rientrare al più presto nelle loro case, quelli finti son pronti a tagliarsi un braccio pur di non farvi ritorno. 

E pazienza se, per la legge italiana (CP 428) «Chiunque cagiona il naufragio o la sommersione di una nave […] è punito con la reclusione da cinque a dodici anni». 

Anche se la nave affondata è la propria.

Solo alcuni conduttori televisivi (una, a dire il vero) evitano con cura di pronunciare la parola «migranti», foglia di fico che fa di ogni erba un mucchio (o un fascio?) assimilando, a seconda della convenienza politica, ora i cattivi ai buoni, ora i buoni ai cattivi. 

Ma i buoni e i cattivi esistono. Così come esistono gli amici e i nemici. E occorre saperli riconoscere.

Tutti vorremmo che chiunque si presenti davanti alla nostra casa bussi e chieda il permesso di entrare, piuttosto che introdursi furtivamente di notte dalla finestra. 

Ciò nonostante, non è detto che chi sceglie la finestra debba solo per questo esser necessariamente un malvagio. Potrebbe esser sì un criminale in fuga dal poliziotto che lo insegue, ma potrebbe anche essere la vittima impaurita inseguita dal criminale. 

Occorre accertarsene. E a questo servono i controlli alla frontiera. 

Perché se anche fosse vero che i flussi migratori non si possono fermare, è pur vero che si possono (e si debbono) regolare. 

Sapendolo fare. E volendo osservare le leggi e i trattati sottoscritti. 

Cosa che l’Italia, fin qui, ha ampiamente dimostrato al mondo di non sapere e/o non volere fare: ora scaricando le colpe su un’inesistente «Europa», parafulmine di ogni italica vergogna, ora digrignando i denti per minacciare impossibili «blocchi navali». 

Impossibili perché da effettuarsi o in acque straniere (atto di guerra) o in acque internazionali (fuori giurisdizione) o in acque italiane (dunque giuridicamente non differenti dalla quella zona franca portuale dove già si sbarca, ma che non è ancora Italia). 

Una manifestazione di ignoranza nautica che mal si addice a un’Italia «di navigatori, di trasmigratori», prima ancora che «di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati». 

Così come, a suo tempo, il controversamente appeso nume dell’attuale governo pensò bene di iscrivere a chiare lettere sui marmi di Roma.   

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