Crollato il Fascismo e senza più un re, sotto il tallone dell’invasore tedesco ed il fuoco dei vincitori, un’inedita mistura di Italiani – ricchi e poveri, intellettuali ed analfabeti, giovani e vecchi, donne ed uomini, campagnoli e cittadini, professori e studenti, nobili e plebei – si ritrovò gomito a gomito col fucile in mano nell’intento di rimettere in piedi quella nazione che da lì a poco avrebbe dato vita all’odierna Repubblica Italiana. Libera ed indipendente. Povera e distrutta, anche. Ma tanto generosa da graziare quei pochi nostalgici rimasti fedeli ai disastrosi ideali del precedente regime.
Se così sta scritto sullo spartito della Storia, magistralmente eseguito da tanti Italiani in perfetta armonia, consentiteci di meravigliarci nell’osservare come quella straordinaria manifestazione di unità nazionale sia oggi indegnamente celebrata con toni, all’opposto, ben più che divisivi. Conditi da malcelati rancori, tacite nostalgie, errate riletture, inspiegabili rimpianti di un’Italia povera, ingiusta, oppressa, ignorante, asservita, umiliata, disprezzata e tenuta a debita distanza dal mondo civilizzato.
E quella che dovrebbe esser la maggior ricorrenza di una nazione eroicamente risorta, è oggi una festa non condivisa da tutti. E non per colpa di una parte, ma di tutte le parti. Allora mai così tanto unite ed oggi mai così tanto divise.
Come già osservammo su queste pagine (Il mito e le palle) il «fiore del partigiano» rischia di finir macinato tra chi vorrebbe reciderlo (le formazioni neofasciste oggi al potere) e chi vorrebbe invece impadronirsene (i litigiosi eredi di quella che fu un tempo la sinistra socialista e comunista). A vincere sarà ancora una volta l’atavica anima anarchica, fortuna e sventura di ogni Italiano. Pronto ad atti di generoso eroismo quando la nave affonda (e cessa ogni differenza tra prima, seconda e terza classe), chiuso nel conforto della propria cabina quando il mare è tranquillo.
Eppure, la grande lezione che il 25 Aprile trasmette è che i grandi risultati richiedono grande partecipazione e grande unità d’intenti.
Una famiglia litigiosa e divisa non produce né felicità né ricchezza. Tantomeno può farlo una nazione. Meglio poveri e uniti che ricchi e divisi. Ma ancor meglio ricchi ed uniti che poveri e divisi.
Non si costruiscono strade, scuole, ospedali, o ponti sullo Stretto, senza un progetto comune. Così come nessuno avrebbe potuto salvare e ricostruire un Paese stremato dal malgoverno e dalle guerre senza quella straordinaria convergenza di energie e pensiero che la Resistenza fu in grado di coagulare.
Si dice che gli Italiani siano maestri nel prestar soccorso dopo le disgrazie, ma non nel prevenirle. Forse perché salvare chi è in pericolo scatena gli applausi, mettere in sicurezza il territorio invece no. E gli Italiani son gente di spettacolo, più a loro agio nell’improvvisare in scena che non nel rispettare un copione.
Ma l’Italia è diventata troppo grande – e troppo in fretta – per illudersi di poter proseguire lungo la propria strada senza l’aiuto di una mappa o di qualcuno disposto a tenerla ancora per mano.
Un copione per l’oggi, l’Italia già lo possiede: è la Costituzione. Un altro per il domani (l’Europa Federale) è forse giunto il momento di scriverlo. E in gran fretta.
Un 25 Aprile degno del Terzo Millennio, questo dovrebbe proporsi: disseppellire il miracoloso spirito unitario che nel 1945 consentì agli Italiani di progettare, costruire e varare la nave sulla quale portare in salvo i naufraghi di un Paese devastato e sconfitto, e con quello ritrovare la volontà e il coraggio di condurre quella stessa nave nel porto più grande e sicuro di un vero Stato Federale Europeo.
Il solo possibile approdo da cui potersi confrontare, da pari a pari, con le vecchie e nuove potenze che mai come oggi minacciano la sicurezza del mondo.
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