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Il mito e le palle

C’è un’evidente contraddizione tra la narrazione fascista dell’uomo forte, «con gli attributi», e la realtà che traspare dai libri di Storia.

Chi non se la sente di sfogliarne le pagine non ha che da sedersi davanti alla televisione, dove il mito fascista potrà osservarlo dal vivo nella figura dello spietato dittatore Vladimir Putin, il cui coraggio meglio si esprime quando c’è da bombardare scuole, ospedali, condomini ed asili, facendo strage di donne e bambini per poi torturare e deportare i pochi sopravvissuti. Tra gli applausi dei non pochi estimatori italiani, orfani del balcone di Piazza Venezia ma evidentemente pervasi dal medesimo cieco entusiasmo. 

La folla è femmina, e facilmente si infatua di chi ostenta la propria potenza. Anche quando quella potenza davvero «propria» non è, ma di fatto rubata a quella medesima massa che, mentre eleva a stella polare un individuo privo di talento e del tutto simile ad essa – ignoranza, vittimismo, rabbia, avidità e supponenza inclusi – volontariamente gli si asservisce. 

Per giustificare tanta autoumiliazione, poi, nell’impossibilità di individuare nel capo padrone una qualsiasi dote che lo renda superiore ad essi, i sottomessi si sforzano di riconoscere in lui dei meriti che in realtà egli non possiede. 

Del Duce si esaltava il portamento (oggi si direbbe la «postura»), il coraggio (mai dimostrato), il tono imperioso (aiutato da cento altoparlanti intorno), la divisa militare (simbolo di forza), la promessa politica (far della misera Italia la guida del mondo, resuscitando la grandezza dell’antico Impero). 

Incantati dalle molteplici balle, i seguaci ne riassumevano le qualità descrivendolo come «uno con le palle». Sbagliando consonante. E tale quella figura è rimasta: nell’immaginario popolare di chi, non possedendone di proprie, ambisce vivere all’ombra delle palle altrui.

Ci ha pensato la Storia, ultimo grado di giudizio, a rimettere ogni lettera al suo posto, e sgonfiare le palle in balle. 

Il coraggio del maestrino di Predappio in che altro si è infine mai manifestato se non nell’omicidio per procura degli oppositori politici, a partire da Giacomo Matteotti, nel circondarsi di una corte di inetti autorizzata ad arricchirsi depredando il Paese, in una retorica bellica non sostanziata dalla reale forza militare (otto milioni di baionette, mica diecimila carri armati), nel gasare donne e bambini africani impossibilitati a difendersi, nell’imprigionare gli Italiani di religione ebraica senza neppure il coraggio di massacrarli, ma traducendoli oltreconfine affinché altri lo facessero, mandando a morire migliaia di coscritti equipaggiati con scarpe di cartone e fucili giocattolo?

No. Alla prova dei fatti, la grande sceneggiata mussoliniana, millantatrice di una forza mai posseduta e usurpatrice di simboli romani di cui non era degna, dalle aquile ai fasci littori, si è risolta in una prevedibile quanto meritata disfatta, spernacchiata persino dall’«alleato» tedesco: l’allievo che finì per superare il maestro.  

Se c’è stato un momento, nella Storia recente, in cui l’Italia ha realmente saputo tirar fuori le palle, quello è stato proprio la resistenza contro l’occupazione nazifascista: comunione di differenti ideali rinsaldatisi nella volontà di cacciare lo straniero e por fine per sempre agli ultimi rigurgiti di un regime che aveva condotto il Paese ben oltre l’orlo del baratro. 

Non fu una sterile rivolta, poiché da essa nacque l’Italia repubblicana: Paese dalle molte anime – non poche delle quali ex-fasciste piuttosto che antifasciste – ma libero e clemente nei confronti dei connazionali compromessi dalla troppa vicinanza con l’antico regime. 

Quel coraggio non si esaurì una volta consolidatosi il neonato potere, ma divenne patrimonio di tutti quegli Italiani che, dal più umile al più potente, senza risparmiarsi profusero straordinarie energie nella ricostruzione del Paese distrutto. 

Questo è stato il 25 Aprile. 

Se poi tra gli Italiani ve ne sono oggi alcuni che si ritengono più uguali degli altri, che intendono accaparrarsene i meriti e farli propri, sovrapponendo la firma di pochi sul sangue versato da tutti, questi vanno presi per un orecchio e ricondotti a più miti consigli. 

Sull’onda della vittoria sovietica sulla Germania, molti furono allora quelli che pensarono che la guerra di resistenza non fosse affatto terminata, ma occorresse proseguirla fino all’affermazione, anche in Italia, degli ideali leninisti. E ancora pensano che quella guerra di resistenza non sia finita, ma appena cominciata. Senza accorgersi d’esser precipitati anch’essi nella logica del depallificato «coraggio» fascista: molto chiasso, molto parlare, molte bandiere, molti gagliardetti, molti atteggiamenti marziali, molte false illusioni. E lo storico risultato di qualche vetrina spaccata.

No. Quello non è il 25 Aprile. Quello è nostalgico rimpianto per una rivoluzione mancata, del tutto speculare al nostalgico risentimento dei pochi sopravvissuti di un Fascismo sconfitto. Due facce di un medesimo passato. 

Tra queste due ali estreme, c’è il corpo di un’Italia che pensa, lavora e produce, che gode oggi i frutti dell’immenso sacrificio di chi allora scacciò in armi il nemico. 

Questo è il vero 25 Aprile, e ancora profuma di quei fiori un tempo così generosamente piantati. Quelli che alcuni vorrebbero oggi recidere, ed altri invece rubare.

Difendiamolo.   

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