Dicesi «pieffe», perché la medesima lettera «F» identifica sia l’uno che l’altro vessillo che le due opposte ali del partito van sommariamente cucendo in vista dell’atteso congresso: quello dei Francescani e quello dei Faccendieri.
I primi, inconsolabili orfani di una classe operaia che non c’è più, si illudono di poter utilizzare i poveri in sostituzione di quell’antica specie protetta, e nel far ciò si ritrovano inconsapevolmente a percorrere quel medesimo sentiero battuto negli ultimi duemila anni dall’ultradestra cattolica, baciarosari da Papeete inclusi. E come novelle dame di San Perdenzo, al servizio degli ultimi, in una deriva antidemocratica che antepone i diritti delle minoranze alla primazia della maggioranza, finiranno prima o poi col ritrovarsi tra le braccia (nelle fauci) del trottoleggiante Conte del Grillo, fervente devoto di Padre Pio: — Pio sono io e voi non siete che servi della NATO!
I secondi, topi di scrivania imbaldanziti dall’aver governato qualche Comune di trentaquattro abitanti, trenta dei quali stretti parenti, o inorgogliti nel sentirsi chiamar Governatori — vale a dire Capi di Stato – in luogo di capi di amministrazioni regionali, gonfi di sé non meno quanto lo fosse la rana di Esopo, credendo di poter diventar grande come un bue, sono realmente convinti di possedere le capacità e la statura necessarie per rifondare un partito e raccogliere intorno ad esso sufficienti consensi per scalzare e sostituire l’attuale governo.
Inutile dire che nessuna delle due scuole di pensiero (?) è tecnicamente e culturalmente in grado di elaborare quel minimo di analisi e di autocritica necessario per impostare le basi di una linea e di un programma coerenti e destinati a durare nel tempo.
Non si parla di qualità, tra quella gente, ma di quantità. Di quanti voti possano esser pietiti ai cinquezampe o quanti rubati ai Calenzi, quanti ai profughi arcorensi e quanti scambiati coi maneggioni di sindacati e associazioni.
È la qualità, la grande assente di questo zoppicante primo scorcio di secolo: scomparsa dal cinema come dalla televisione, dalla musica come dalle professioni, dalla sanità come dall’industria, dalla scuola come dalla politica. E la caccia al voto non richiede più come un tempo ottima mira e grande precisione: meglio le bombe a grappolo, ’ndo coje coje. Tanto, poi, i parlamentari li nominano i capipartito. Mica gli elettori, come accadeva prima del rosatellum.
Per come stanno le cose oggi in politica, dieci cartoni di Tavernello valgono più di otto bottiglie di Sassicaia. E tutto quel che dal malpromettente congresso ci si può attendere, chiunque dovesse prevalere, è la nascita di un ennesimo partito di cartone.
Gravido di iussoli, decreti arcobaleno, rabbonimenti e bonus, conditi da abbracci a cinquestelle, se dovesse prevalere l’ala francescana; di spartizioni, decentramenti regionali, paranazionalizzazioni, tasse occulte e baci bungabunga, nel caso trionfasse l’ala faccendiera.
Una sola cosa è certa: chiunque dovesse prevalere, la/il Meloni può dormire sonni tranquilli. Il pieffe, non diversamente dal piddì, resterà comunque una cosa per pochi.
E neppure tanto intimi.
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