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Il tempo dei Meloni

Estate, tempo di Meloni. La segretaria di quel che potrebbe rivelarsi il primo partito in Italia, affila le zanne in vista della lunga arrampicata che dovrà regalarle una strepitosa doppia vittoria: la poltrona di Palazzo Chigi e il podio di prima donna alla presidenza del Consiglio dei ministri. 

Giusto per allenarsi, arrota intanto la dentatura sulle carni degli «amici»: il nazionalista orientato al sociale (nazionalsocialista) che strizzava l'occhio alla Russia e adesso – più prudentemente – al Vaticano, e il fresco sposino a cui necessitano ancora alcuni mesi per concludere più o meno felicemente le fatiche della prima notte paranuziale.

Vedremo allora se un melone potrà far più bene o più male al mondo di quanto ne fece una sola mela nelle mani di Eva. Nell'attesa non resta che goderci, confortevolmente accucciati tra le nuvole, le primissime puntate di quella che si annuncia come una lunga e avvincente fiction. 

Una sola cosa non riusciamo a comprendere, ed è il motivo per cui tutta la stampa italiana concordi nel chiamare «destra» la formazione politica guidata dal saporito ortaggio, le cui ascendenze si ricollegano al partito di Almirante, erede a sua volta di un passato regime che la vera destra la combatteva, andandola a stanare nelle università, nelle aule parlamentari, nei consigli di amministrazione, nelle scuole, nelle fabbriche, a suon di manganello e fiaschi d'olio di ricino. 

La destra (quella vera) è decisamente un'altra cosa, diremmo addirittura opposta e contraria. E ben dovrebbero saperlo gli Italiani, figli dei D'Azeglio e dei Cavour, dei Quintino Sella e dei Ricasoli. Fino agli Spadolini o ai Montanelli dei nostri giorni. Questi tutti sì, meritevoli d'esser chiamati «destra».

La destra non urla sguaiatamente dai palchi sulle piazze, ma espone il proprio pensiero con voce ferma e quieta. Parla, tra le altre, la lingua italiana, non il meneghino o il romanesco. Predilige gli alti studi, piuttosto che coltivare la propria e l'altrui ignoranza. Non veste in jeans e felpa, ma in giacca e cravatta. Si lava tutti i giorni ed evita accuratamente i tatuaggi. Difende la proprietà pubblica e privata, anziché occuparla abusivamente con la forza. Passa più tempo a leggere che a sbraitare. È per natura conservatrice, mai rivoluzionaria. Preferisce farsi molti amici, piuttosto che nuovi nemici. Evita accuratamente il turpiloquio, facile scorciatoia dialettica, ma sa colpire lodando, se necessario. Non scrive sui muri, ma sui giornali. Non gira per strada con le bandiere in mano, ma siede compostamente alla scrivania con le bandiere alle spalle. 

Cari Italiani del vostro stivale: un vero uomo di destra lo avete già, e si chiama Mario Draghi. E neppure ve ne siete accorti. Perché cercarne altri tra la finta destra, che nella lingua italiana ha ben altro nome?

È comunque altamente probabile che l'occhiuta Giorgiona raggiunga l'ambito obiettivo. Vorrà dire che lo avrà meritato, e l'augurio è che possa coordinare i suoi ministri con lo stesso piglio elegante ma efficace del suo predecessore. 

Con una sola cortese richiesta: chiamatela pure Presidentessa, Presidenta o magari President* o PresidentƏ. Ma, per amor di verità, non chiamatela «destra».  

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