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Per un pugno di dollari

Nel leggere le sconsiderate rimostranze del Trombone di Washington nei confronti dell’Unione Europea, alla quale sostanzialmente contesta l’impotenza che deriva dall’essere un club di nazioni e non un Paese unito (proponendo tuttavia, quale interessata cura, quella di frammentarla ulteriormente) sembra d’esser tornati ai trascorsi anni Sessanta, quando motivo di reciproco sconcerto non fu un arbitrario tentativo di spartizione del mondo, ma una differente lettura dell’epopea americana nella versione proposta al pubblico dal cosiddetto «western all’italiana». 

Un ribaltamento della rude e spartana immagine del mandriano armato (altrimenti detto cowboy) che ha visto l’italico sberleffo prendere il sopravvento sulla pistola, finendo con l’innovare un genere altrimenti destinato (il western, non ancora l’Europa) all’estinzione. 

In principio fu «Per un pugno di dollari», 1964, che – a ben guardare – di italiano aveva assai poco. Il soggetto non era che la riambientazione western di un film di Akira Kurosawa («Yôjinbô - La sfida del samurai», 1961, ambientato in Giappone), in seguito nuovamente saccheggiato da Walter Hill in «Ancora vivo - Last man standing», 1996, che ricolloca l’azione negli anni del Proibizionismo, tra mafie italiane e mafie irlandesi. La vicenda, poi, come per il 99,9% di ogni buon film western, era la consueta storia di vendetta. Narrata però con un differente approccio: meno canino, più felino. Meno minacce, insulti, vigliaccate, scazzottate, whisky e pistolettate a vanvera. Più silenzi, meditazione, pianificazione, destrezza, astuzia, sorpresa. Meno muscoli, più cervello. Oseremmo dire: meno America, più Europa. 

E poiché il cinema (quello vero) è fatto di immagini, e nel 1964 gli obiettivi non erano più quelli in uso ad Hollywood negli anni Trenta, con focali fisse affamate di luce, Sergio Leone ebbe modo di impartire straordinarie lezioni di regìa coi mitici dettagli dello sguardo dei duellanti, con le scene notturne, con un ritmo narrativo serrato e mai dispersivo. Il film western, fatto di grandi spazi altrimenti non ricostruibili nei ridotti spazi di Santa Monica Boulevard, disdegnava primi piani e dettagli, peraltro difficili da realizzare tra cavalli in movimento e macchine da presa non stabilizzate.   

Di dollari (quelli veri) il film ne fece a camionate. Altro che «un pugno»! Nonostante fosse distribuito non dalla Fox o da MGM, ma da uno sconosciuto marchio romano di serie B: la «UniDis». 

Giunto nelle sale come una delle tante imitazioni western italiane e tedesche, con qualche (allora) sconosciuto attore televisivo americano e tanti figuranti Italiani americanizzatisi per l’occasione nei titoli di coda, il western all’italiana divenne un vero e proprio genere, che giunse a piena maturità quando Terence Hill e Bud Spencer elaborarono la giusta ricetta per cucinarlo insieme agli speziati ingredienti dell’ormai stanca commedia all’italiana.

La grande italica novità fu che di West si poteva anche ridere. Nei vecchi film di mandriani, saltuaria occasione di un debole sorriso era l’immancabile vecchietto del West. Pochi giungevano a quell’età, in quei luoghi e a quei tempi, e tanto bastava per farne una persona felice fra tante infelici. Biascicava stranezze, come ogni anziano che si rispetti, sparando esilaranti battute in luogo di micidiali pallottole. 

I due Italiani, invece, sparavano di tutto. Ben congegnati alla Stanlio e Ollio (come ogni coppia comica di successo: piccolo, furbo e veloce Terence, contrapposto al grosso, impacciato e lento Bud), alla vecchia commedia all’italiana rubano l’idea di esasperare oltre misura ogni umano vizio o difetto, così che il pubblico possa, ridendone, immedesimarsi e correggersi. 

Alle pretestuose provocazioni e offese degli avversari, i due rispondono con lo sguardo beffardo di Terence, fattosi esca in attesa che si scatenino i cazzotti a raffica di Bud. E se nell’American Western non c’era saloon che non finisse regolarmente distrutto a calci e pugni, nell’Italian Western un pugno ben dato poteva letteralmente raderlo al suolo. Esagerare, esagerare, esagerare.

Il western, che per gli Americani altro non era che Storia, neppure così antica, per gli Italiani non era che divertimento. Per divertimento, da bimbi, avevano riempito le sale puzzolenti di tabacco dei cinemetti di provincia. Per divertimento, da adulti, hanno riempito gli schermi. E le edicole, dal grande Blek Macigno a Capitan Miki, senza scordare Tex Willer, forse il vero ispiratore del western all'’italiana.

Era un West spensierato e felice, a misura di Totò, contrapposto ad un West avido, rancoroso, vigliacco e sanguinario. Fatto di scherzi e sgambetti in luogo di linciaggi e impiccagioni. Di donne belle e intelligenti in luogo di volgari prostitute. Di dolci paesaggi mediterranei maldestramente spacciati per assolate praterie messicane. 

In poche parole, per mano italiana il nuovo prendeva il posto del vecchio. Quel nuovo che la grande America, inchiodata al mito dello standard, delle norme codificate, pare non esser neppure in grado di immaginare (le grandi invenzioni, dal telefono all’atomica, han per lo più testa e firma europea) ma che il Vecchio Continente condivide invece da sempre, più o meno involontariamente, col resto del mondo: copiati, scimmiottati, talvolta derubati dal Giappone alla Cina, dall’America alle Russie. 

Esiste il nuovo ed esiste il vecchio. Esiste il bene ed esiste il male. Esiste la verità ed esiste la menzogna. È la prima legge della dialettica: nulla esisterebbe in assenza del suo contrario. L’umanità non avrebbe mai coniato la parola «luce», se prima non avesse conosciuto il buio. 

Neppure esisterebbe un Trump, o un MAGA, forse, se non fosse prima esistito un Woke. Ma un Trump , ahinoi, purtroppo c’è, e spetta a noi rimetterlo al suo posto, tra i volgari casamonici stucchi di una Casa Bianca riconvertita in casa di intolleranza. E difendercene.

La buona vecchia Europa ha ancora molto da dire. E molto da fare. Il pianeta conta oggi otto miliardi di abitanti. Un Terrestre su quattro, nel secolo scorso, era europeo. Oggi, solo uno su dieci. Ma per quanto ristrettasi alle dimensioni di un cespuglio, accanto al pur rinsecchito albero americano, ormai incapace persino di proteggerla con la sua ombra, così come al cospetto della rigogliosa quercia cinese, la vecchia Europa ha (e sempre avrà) dalla sua un ineguagliabile vantaggio: la strettissima vicinanza alle proprie radici, dalle quali non non mai cessato, nel corso di una lunga e tormentata Storia, di trarre nutrimento e insegnamenti.

L’America di Trump somiglia sempre più ad un vecchio e truce film western, dove la gente si guarda in cagnesco e lo straniero è condannato sin da quando si affaccia alle soglie del villaggio. Dove il nemico è meglio sceglierselo armato di arco e frecce, piuttosto che di cannoni e fucili (meglio ucraino che russo; meglio venezuelano che cinese). Dove la sanguinosa corsa all’oro non è mai finita (è cambiato l’oro, ma non la corsa). Dove la felicità si misura in dollari, e la vita – spiegabilmente più breve che in Europa – non lascia il tempo di accumularne abbastanza per comprendere che di troppo denaro non si vive, ma si muore. 

L’inerme anarcoide Europa pare invece un western all’italiana. Pochi sono i fessi alla ricerca dell’oro: i più svegli mirano direttamente alla Felicità, che può incarnarsi di volta in volta in una passeggiata tra le Dolomiti, in un tuffo a Caprera, in una crociera sul Danubio, in una visita al Louvre... O anche, più semplicemente, in una tavola imbandita d’ogni ben di dio, alla faccia del pollo fritto e del pop-corn. E il divertimento è sempre gratis, a suon di risate che rimbombano come un’offesa sul muso intristito e diffidente di chi è infelice innanzitutto di se stesso, e spende un’inutile vita alla ricerca di un qualsiasi altro differente colpevole.

* * * * * 

C’è una citazione cult, in «Un pugno di dollari», forse rubata ad un vecchio proverbio messicano: «Quando un uomo con il fucile incontra un uomo con la pistola, quello con la pistola è un uomo morto». 

In bocca ad un asino come Trump, il senso della frase sarebbe quello, cavernicolo, del «vince chi ce l’ha più grossa». La clava, la bomba, l’economia, la portaerei…

Nel film di Leone, invece, il senso è del tutto opposto. Non vince il cowboy ubriaco che irrompe in gruppo nel villaggio e scarica le pistole sparando ovunque all’impazzata. Vince chi, da una posizione più distante, dunque più protetta, prende con massima calma silenziosamente di mira un bersaglio non casuale, ma consapevolmente prescelto. Con un’arma difficile da padroneggiare, ma molto più precisa. E solo quando è pronto, certo del risultato, posa il dito e preme lentamente il grilletto. E quietamente colpisce.

Studio, preparazione, determinazione e intelligenza guidano la mano. Non viceversa. 

Comportamento da uomini, non da palazzinari del Queens. 

Comportamento da Europei.  




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