Sulla superbia presidenziale c’è poco da aggiungere: superbo è chi si considera superiore a chiunque altro, incluso Dio. Tentar di sottomettere gli altri e pretenderne l’adorazione, è l'immediata quanto necessaria conseguenza. E pazienza se, in un regime democratico, ci si attende che un presidente si dedichi a servire la Nazione, piuttosto che a comandarla.
Già nel 2017, rispondendo a un lettore dalle pagine della rivista «Sette», Antonio d’Orrico concordava sulla somiglianza anche fisica di Donald Trump col personaggio di Superbone (ciuffo incluso), un fumetto degli anni Sessanta disegnato da Erio Nicolò per «Il monello». Con la sola differenza che i quotidiani straripamenti di Superbone trovavano un puntuale contrappeso nell’arcigna zia, lesta a bastonarlo con la ramazza in mano. Allo stesso modo ci si attenderebbe che un presidente USA debba trovarne di simili nel Congresso, nella Magistratura, nella libera stampa. Ma il Congresso è al momento in mano a trumpiani DOC, la Magistratura è stata chirurgicamente epurata e la stampa tacitata.
E il superbo, libero di strabordare, ulteriormente insuperbito.
L’avarizia, che consiste nel considerare la ricchezza al di sopra di tutto, è esplicitamente definita dal Cristianesimo la peggiore forma di idolatria. Se è vero che non si possono servire due padroni – Dio e il denaro – allo stesso modo non è immaginabile servire a un sol tempo la Nazione e la brama di beni materiali. Non per niente la corruzione è considerata il peggior crimine di cui un uomo di Stato possa macchiarsi. E quando Trump non esita ad affossare il dollaro pur di promuovere le proprie criptovalute, o accetta da Paesi stranieri doni miliardari in cambio di favori, non opera certo per il bene della Nazione, ma per se stesso.
Guai a farglielo notare, però, se non si vuole accendere la miccia del terzo vizio: l’ira. Quella rabbia sempre pronta ad esplodere che spinge il Nostro a ricoprire di contumelie chiunque non si accucci ai propri piedi: si chiami Zelensky o Xi Jinping, o persino Musk o Putin, a seconda del giorno e dell’ora.
L’invidia, figlia primogenita della superbia, non tarda poi ad manifestarsi quando chi si illude d’esser superiore si scopre inaspettatamente inferiore, quando è al cospetto di chi veramente vale. E si accorge, magari, di non esser degno di un Nobel mentre quattro presidenti USA lo son stati prima di lui.
Di tutti i possibili vizi, capitali e non, l’invidia è il solo che, lungi dal dare piacere, crea in chi lo coltiva il massimo tra i dispiaceri: la scoperta della propria nullità.
Le cronache mondane e giudiziarie certificano da anni le inclinazioni trumpiane per la lussuria: maniacale ricerca del (proprio) piacere. A qualsiasi costo. Quand’anche le cronache non bastassero, è sufficiente osservare il cattivo gusto degli oggetti (e dei personaggi) di cui si circonda, che tracima di norma nella più riprovevole volgarità: dall’overdose di improbabili arredi dorati al disinvolto uso del turpiloquio nei pubblici discorsi.
Se l’avarizia è l’insaziabile fame di beni, la gola, ancorché saziabile, possiede tuttavia l’aggravante dell’impellenza: la fame non può attendere: va spenta subito. Immediatamente.
Se l’avarizia è il desiderio dei beni, la gola è l’incapacità di controllare quel desiderio: mangiare oltre misura, bere senza contenersi, fumare senza mai smettere, tirare coca come un aspirapolvere impazzito. Trump non solo vuole tutto, ma lo vuole subito. E tanto. Dazi al 15% ma anche al 30%, o al 50%. Meglio ancora se al 150%! A tutti. Pinguini compresi.
Last, but not least, l’accidia: ossia l’indifferenza, il disinteresse, il disprezzo per tutto quel che esiste o accade al di fuori di sé. Quell’incapacità di vedere tra le rovine di Gaza null’altro che un terreno spianato buono per edificarci sopra un luccicante resort affacciato sul Mediterraneo; o nelle città sventrate dell’Ucraina l’inspiegabile pervicacia dei sopravvissuti nel rifiuto di inchinarsi ai desideri del sodale Putin.
Convinto com’è che non esista altra vita al di fuori di sé, il portatore insano di ciuffo al mais non può che trovarsi a disagio sempre, comunque e dovunque: frustrato, infelice e insoddisfatto di tutto e di tutti, prigioniero a vita di quei fantasmi che egli stesso si è fabbricato, così come dei sette vizi che con tanta dedizione osserva e coltiva.
Della sua presenza terrena poco resterà: qualche sorriso di compatimento, tante immagini che lo sbeffeggiano, un’America retrocessa a risse da saloon, la rivalutazione della monarchia (quella vera) come più affidabile sistema di governo.
E una cassaforte inutilmente piena. La sua.

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