Simpatiche o antipatiche che siano, tuttavia: 1) le banche sono imprese private; 2) il fine statutario di ogni impresa privata è ottenere il massimo profitto; 3) l’impresa assume su di sé il rischio di perdite finanziarie, fino al massimo rischio del fallimento, confidando nei futuri guadagni; 4) quando un’impresa genera infine profitti, significa che è stata amministrata bene. Quando ne genera tantissimi, significa che è stata amministrata benissimo. Al meglio.
Questo è l’abc di ogni impresa privata. Vale per il bombolaro all’angolo come per Tesla o Apple.
In Italia, evidentemente, no.
Se guadagni troppo, non soltanto paghi più tasse per via della maggiore aliquota (e questo è messo in conto), ma al pattuito carico fiscale l’attuale governo vorrebbe aggiungere un’ulteriore tassazione.
Non un premio, per aver così bene amministrato quel denaro che i risparmiatori hanno affidato alle banche, generando alti profitti, ma una vera e propria punizione. Se non un autentico ladrocinio.
Il senso di tale pretesa può esser riassunto in una tacita domanda: «Come vi permettere, voi banche, di amministrare al meglio il patrimonio affidatovi, quando noi non siamo in grado di fare altrettanto col Paese che lo Stato ci ha incaricato di amministrare? Noi che svendiamo a due lire le concessioni minerarie, territoriali e balneari? Noi che paghiamo il doppio o il triplo la manutenzione delle strade e degli edifici pubblici? Noi che ci scordiamo di riscuotere l’affitto da chi occupa le case popolari? Noi che distribuiamo bonus a destra (molti) e a manca (altrettanti) per comprar voti che poi neppure arrivano?
Specchio, specchio delle mie brame, chi è il miglior amministratore del reame?
Come sarebbe a dire “le banche”! Le banche amministrano meglio di noi? Assassinatele, dunque!
Come sarebbe a dire “non è stagione, non riusciamo a trovare mele da avvelenare”? Acchiappate carta e penna e scrivete una bella manovra finanziaria!».
O no?
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