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Tra il fiume e il mare...

A Dubai gli Emiri emirano, gli Sceicchi sceiccano, gli evasori italiani se la godono, i Russi esclusi dai luoghi esclusivi ciucciano vodka e tirano coca, i lavoratori immigrati fanno tutto il resto. 

Negli Emirati, gli stranieri impiegati nel tessuto ricettivo e produttivo sono il 90% della popolazione residente. Più della metà proviene dal subcontinente indiano (India, Bangladesh, Nepal, Sri Lanka). Marginali le presenze arabe (4% dall’Egitto, 5% dall’Iran, meno del 5% da Siria e Giordania). 

Le paghe sono il doppio di quelle italiane. I Palestinesi in fuga dall’«oppressione» israeliana dovrebbero far la fila per chiedere di entrare. Invece, inspiegabilmente, negli Emirati non c’è alcuna quantificabile presenza palestinese. Come peraltro neppure in Egitto, dove si ferma allo 0,6% della popolazione, o in Arabia Saudita (1%). Le percentuali tornano visibili ad occhio nudo solo in Siria (3%) e in Libano (8%). 

I Palestinesi vivono per lo più in Israele, dove rappresentano il 29% della popolazione, a Gaza (100%) e in Cisgiordania (75%). La confinante Giordania ne ospita circa due milioni (il 17% dell’intera popolazione. Per lo più profughi, senza alcuna occupazione.

Sono numeri che raccontano una realtà ben diversa da quella dipinta negli striscioni agitati da troppi figli di papà nelle troppo tolleranti piazze occidentali. 

I numeri ci dicono che non esiste in Medio Oriente uno Stato altrettanto accogliente verso i Palestinesi come Israele, che oltre ad occuparne un milione e mezzo sul proprio territorio, ha lasciato interamente nello loro mani l’amministrazione delle regioni di Gaza e Cisgiordania.

Gli occhi (altrettanto precisi dei numeri) ci dicono che non per questo Gaza è diventata la Montecarlo del Medio Oriente o la Cisgiordania un modello di buongoverno in grado di assicurare sicurezza e benessere alla popolazione. Ci dicono anche che se esiste un Palestinese benestante, occorre andarlo a cercare in America, oppure in Israele.

Gli insulti di Netanyahu all’assemblea dell’ONU, immediatamente seguiti dagli inattesi attacchi alle postazioni UNIFIL in Libano, lanciano al mondo un chiaro messaggio: Israele non teme di voltare le spalle a quell’Occidente dal quale ultimamente altro non riceve se non sequele di improperi, per volgere invece lo sguardo ai Paesi moderati arabo-sunniti, impegnati in un percorso di crescita ma diffidenti nei confronti di USA, Russia e Cina, e definire insieme ad essi, una volta per tutte, la questione in loco: su un piano regionale (emiro-saudita) piuttosto che planetario (ONU). 

Gli Emirati possiedono denari ma non uomini e territorio. E ciò comporta seri problemi di difesa. Il giovane principe saudita vorrebbe proseguire nel percorso di apertura e sviluppo già avviato nel regno, ma è anch’egli bisognoso di pace. 

E la pace non si può perseguire in altri modi se non proteggendosi ed armandosi. Di mezzi, di tecniche, di strategie. Materie nelle quali il minuscolo Stato di Israele, costretto sin dalla nascita a combattere nemici cento volte più forti di lui, ha dovuto giocoforza perfezionarsi e specializzarsi. 

Israele serve ai Sunniti non meno di quanto i Sunniti servano ad Israele. Un’ONU in mano alla Russia e alla Cina, mal tenute a bada dalle briglie USA altrove al momento impegnate, non serve a nessuno. Un’Iran liberato dalla dittatura religiosa e un Medio Oriente rappacificato sotto la guida dei moderati emiro-sauditi, sarebbero invece utili al mondo intero.   

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