A cominciare da quel berlusca tornato semprevergine che china il capo moquettato e si azzerbina al compagno di colbacco per recitarne a memoria l’indegna e menzognera storiella: quella del lupo che deve pur difendersi dall’agnello, sbranandolo; per poi proseguire con gli strazianti lamenti alzati al Cielo dagli arricchiti dei superbonus e dai fulminandi terrorizzati dalla rivoluzione elettrica del 2035!
L’assoluzione con formula piena del santo di Arcore, giustificata dal fatto che non avrebbe potuto in alcun modo pagare le testimoni – dal momento che testimoni in realtà non erano, bensì mancate imputate – è un capolavoro avvocatizio da far impallidire mille Perry Mason. Ma convince i suoi devoti che mostrano adesso i denti, anziché benedirla, a quella stessa magistratura che l’ha appena assolto, invocando commissioni parlamentari d’inchiesta con cui mazzolare a manca ma non a destra. Spacciando in tal modo per coraggio l’arroganza e l’irriconoscenza.
Alte si levano poi le strida degli orfani da superbonus: una maxispesa da 120 miliardi di euro (a debito) per rimettere a nuovo tanto le private magioni che i non pochi privatissimi mangioni.
«Si perdono migliaia di posti di lavoro!», urlano indignati i superbonificati: quasi che il lavoro fosse per l’umanità un premio e non la biblica condanna da cui essi per primi si son sempre tenuti alla larga.
Mentono sapendo di mentire.
Se il problema fosse quello di sostenere costruttori e operai, perché non utilizzarli per rimettere a nuovo edifici e strutture pubbliche, anziché case al mare o – peggio – castelli in aria e castelli d’aria? Non esistono in Italia scuole e ospedali da mettere in sicurezza ed altri da ripulire? Non esistono strade da riparare o riasfaltare, se non addirittura da costruire? Se i soldi sono pubblici, perché non destinarli al bene pubblico?
La foglia di fico dei neobonificati è che dalle loro nuove case ne trarrà immenso beneficio «l’ambiente», idolo del nostro tempo, grazie al complessivo miglioramento dell’efficienza energetica.
Ma i dati osservati ci dicono che l'efficientamento è stimato in circa 11.700 Gw/h: un risparmio di circa il 3% dell’energia annualmente prodotta in Italia. Un filino di sostenibilità ad un costo obiettivamente insostenibile.
Lampi ed elettriche grida giungono poi dai cacasotto a quattro ruote, timorosi di dover sacrificare le loro automobili al medesimo idolo ambientale, dopo la decisione degli Stati dell’Unione di bloccare dal 2035 le immatricolazioni di autovetture alimentate con combustibili fossili.
Anche qui ad oliare la lagna è la temuta perdita di posti di lavoro, oltreché la spietata concorrenza dei monopoli esteri nella produzione di batterie e microprocessori.
La verità è anche in questo caso tutt’altra: sia perché nessuno vieterà la circolazione di quelle che prima o poi diventeranno autovetture d’epoca, magari ricercate a prezzi da amatore, ma soltanto l’immatricolazione di nuove autovetture; sia perché non sta scritto da nessuna parte che le nuove automobili debbano essere necessariamente elettriche, e non invece mosse dall’idrogeno o (come già avviene in Brasile) dai biogas.
Per quanto riguarda poi industria, brevetti e posti di lavoro, va ricordato che il divieto colpisce solamente le auto, e non autobus, camion, mezzi militari, di soccorso e da lavoro: ruspe, gru, scavatrici e tutto quel che l’elettricità non è al momento in grado di muovere.
È un fatto certo che allo stato attuale l’automobile elettrica non è ancora un’«auto-mobile», nel senso che la dipendenza dalle frequenti ricariche nega di fatto ogni possibilità di «muoversi autonomamente», come il nome «automobile» vorrebbe significare. Può essere una soluzione ottimale per quei pendolari che spendono più ore alla scrivania che non in auto, abbeverandosi la notte alla colonnina di casa e di giorno a quella dell’ufficio, ma non per chi viaggia su lunghe percorrenze o in Paesi troppo freddi, troppo bui, troppo caldi, con autonomie dimezzate dai consumi concorrenti di fanaleria e climatizzazione.
Si tratta di limitazioni già evidenziate altrove. Ma proprio per ciò si parla del 2035 e non dell’estate prossima, così da poter affrontare per tempo le problematiche di un’evoluzione che tra dodici anni sarà soltanto alla linea di partenza, non certo al traguardo.
Nulla di cui temere, dunque, ma una delle tante sfide da accettare e vincere nel corso di questo secolo. Almeno per chi crede nel progresso (quello vero, non quello dei finti progressisti a cinque marce e cinquecento mance) ed è pronto a spendersi e impegnarsi perché il domani sia sempre e comunque migliore dell’oggi.
E pazienza se c’è chi se la fa sotto. E soffre. Pur di non cambiare il mondo.
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