Nessuno dei ragazzi occupati nei fast-food viveva a Manhattan, a differenza del personale di sala e di cucina dei locali più eleganti. Nessuno poteva permetterselo. Neppure dividendo in cinque il costo di una stanza.
Stavano a Queens, in New Jersey, a Brooklin, a Staten Island. Ma coi mezzi pubblici fermi, nessuno era più in grado di raggiungere il posto di lavoro.
Novembre 2025. L’uragano Mamdani colpisce New York. Tredici anni dopo, una città ancora più ricca, esclusiva e costosa. Quartieri un tempo degradati e infrequentabili come Alphabet City, Meatpacking, Chinatown, West Side, sono oggi locations qualificate, ricercate e di gran moda. Sul mare di Brooklin son spuntati grandi alberghi e grattacieli, ed Arthur Avenue, nel Bronx, è la nuova Little Italy.
Se ancora qualche anno si poteva pensare di risiedere a Manhattan con 15.000$ al mese, quella cifra è oggi realistica solo per chi già possiede un’abitazione.
Mamdani, poco più che trentenne, made in Uganda, irrimediabilmente islamico e grillescamente dedito agli emarginati che hanno eletto a dimora le gallerie della subway cittadina, è stato eletto sindaco di New York minacciando nuove tasse ai «ricchi» (che già le pagano) e promettendo nuove case ai poveri (che non le pagano).
È un vincere facile. Un reddito di (non) cittadinanza tanto più grande quanto più vasta è la città. Evitando con cura di motivarne il perché.
Certo, l’Islam iscrive la carità tra i cinque pilastri che sostengono quella religione. Ma davvero è un gesto di carità permettere a qualche milione di persone di sopravvivere malamente in quel malsano conglomerato urbano, quando con la stessa spesa potrebbero meglio godersi la vita su una spiaggia caraibica?
C’è un errore di fondo. C’è una disattenzione alle ragioni della Storia che avvicina, a loro insaputa, l’imberbe Mamdani al decrepito Trump. C’è l’ostinarsi a non comprendere che negli USA l’età industriale è irrimediabilmente finita nel 1990, dieci anni prima che in Europa, è agli sgoccioli in Cina, è fiorente in India ed è assai promettente in Africa.
E che insieme all’età industriale è finita per sempre la possibilità di occupare in maniera stabile, con una paga adeguata, quei milioni di persone che per due secoli dalle campagne han ripopolato le città, facendole più grandi, più democratiche, più attrattive, più prospere.
È un mondo finito per sempre.
Le fabbriche ci sono, certo, e ci saranno ancora. Ma nessuno può più entrarci armato soltanto delle proprie braccia, di un martello, di un cacciavite, senza saper leggere o scrivere, o far di conto. o conoscere la lingua del luogo.
Oggi in fabbrica si entra con conoscenze e competenze che consentono di padroneggiare macchinari e processi produttivi capaci di cancellarle per sempre, quelle braccia. Una battaglia che non ha per nemico il lavoro, ma la fatica. Una battaglia che ogni uomo sogna di vincere.
E come un tempo spiccava salti di gioia lo schiavo liberato dal padrone, al medesimo modo tutti i veri amanti del Progresso dovrebbero brindare al Cielo per ogni avvitabulloni liberato dalla schiavitù della fabbrica.
L’età industriale non tornerà più, in Occidente. Resterà l’industria, per chi ha buona la testa, e resterà l’artigianato di qualità, per chi ha buone le mani.
Se è questa è la direzione verso cui marcia il futuro, sbaglia Trump, quando si illude di poter resuscitare a suon di dazi la grande America del carbone e dell’acciaio, ma sbaglia anche Mamdani quando pensa di poter (dover) contenere entro le mura cittadine milioni di individui privi ormai di un qualsiasi motivo che li spinga a restarci.
È un fenomeno non più emergente, ma del tutto emerso, in molte tra le città postindustriali dell’Occidente: una sorta di «deurbanesimo» opposto e contrario a quell’Urbanesimo esploso nell’Ottocento insieme alla machina a vapore, e alla conseguente migrazione degli stabilimenti dalle lontane (e limitate) fonti energetiche dei corsi d’acqua e dei mulini a vento in direzione dei ricchi mercati cittadini.
La crescita dell’industria ha ingrandito le città, la decrescita le rimpicciolirà. Non è politica: è matematica.
Accade anche in Italia. Milano non produce più automobili, televisori, aeroplani o elettrodomestici. È stata pronta nel riciclarsi prima nel design e nella moda, poi nell’editoria e nella televisione, oggi con la finanza. Un percorso che ha visto in pochi decenni ridursi il numero delle braccia e crescere quello dei cervelli.
Regge a suo modo Roma, come ogni altra città capitale, dove si vive di politica e di mazzette: paradiso di chi sa ben servire così come di chi sa mal comandare. Roma sta a Milano come Washington a New York: a Washington si campa di crimini e politica, a New York di finanza, architettura, televisione, editoria.
Credere che pescare un senzatetto tra i topi della metro, alloggiarlo in una stamberga di periferia, pagargli il treno per andare in centro a guadagnarsi un pasto, basti a farne una persona felice, non è che una pia illusione.
Il sogno americano poteva forse andar bene al tempo del carbone o dell’acciaio, quando tanti tra quelli che sapevano soltanto zappare son stati baciati dalla dea dell’oro o dal dio del petrolio, o dal demone dei traffici clandestini di alcol e cocaina.
Ma oggi New York ha fame di teste, non certo di braccia. E le teste si fabbricano nelle università. Quelle che Trump massacra togliendo ad esse libertà e finanziamenti. Quelle che Mamdani populisticamente ignora.
Mamdani dichiara di volersi spendere al servizio degli emarginati. Un buon sindaco dovrebbe invece porsi al servizio della città. Come tanti tra quelli che l’amministrarono in passato.
Mamdani potrebbe stupirci, certo. Con le attuali misure di Washington, Mamdani è certo più vicino a un Lincoln che non a un Trump. Eppure, non diversamente dal Pannocchia, manca di una visione, di un progetto. Pensa a riparare (male) piuttosto che a costruire (bene). Più orientato al passato che al futuro. Più al mantenimento dell’esistente che non a un reale progresso della città.
Gli USA non ci hanno rubato soltanto Pinocchio: Trump è il cartone animato di Berlusconi, Mamdani il cartone animato dei paleogrillini: un vaffa con le zampe lanciato a razzo contro il buzzurro dal ciuffo biondo.
I newyorkers meriterebbero altro. Ma forse, nell’attesa, si augurano che i due nuovi animaletti sappiano quanto meno divertirli.
Mentre il Toro, a Wall Street, silenziosamente ingrassa. Magari di qualche chilo.

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