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Deurbanesimo

Il caso Milano riapre la questione abitativa nei grandi centri urbani in Europa e non solo. Nessuno che disponga di un reddito mensile inferiore ai settemila euro può permettersi di pagare un affitto in una zona centrale o semicentrale di Milano. 

È vero. Ma è una realtà che da alcuni decenni riguarda le grandi città dei Paesi più sviluppati. Non solo Milano, ma anche Parigi, Monaco, Londra, New York, Amsterdam...

È un fenomeno che potremmo definire «deurbanesimo«, diametralmente opposto a quell’«urbanesimo» che, a partire dalla fine dell’Ottocento, moltiplicò a dismisura la popolazione nelle grandi città, attraendo centinaia di migliaia di persone pronte a lasciare le scomodità e le insicurezze della campagna per abbracciare le opportunità offerte dal nuovo modo di produzione industriale, in grado di dare occupazione persino (e soprattutto) ad analfabeti privi di qualsiasi formazione. 

Galeotta fu la macchina a vapore, nata nel 1796 per mano dello scozzese James Watt. 

Fino a quel momento, qualsiasi attività produttiva che richiedesse un consumo di energia superiore alla sola forza animale era costretta ad insediarsi lungo i corsi d’acqua, che muovevano le ruote a pale, o nelle zone più ventose, buone per i mulini a vento. 

Una consuetudine vecchia di millenni, sufficiente per far fronte ai limitati bisogni di un pianeta allora spopolato, tranne che in un importante settore produttivo: quello minerario.

Una miniera la si poteva anche scavare a mano, per poi trascinare con gli asini il minerale lungo gli stretti binari delle gallerie. Ma c’era un insuperabile limite fisico: giunti in profondità, la pressione atmosferica non consentiva più di pompare all’esterno l’acqua che invadeva le gallerie più basse. E una miniera non poteva esser trasportata là dove c’era grande disponibilità di energia idrica o eolica. Occorreva, al contrario, avvicinare l’energia alla miniera. 

L’impossibile divenne possibile già agli albori dell’Ottocento, quando la macchina a vapore, dapprima utilizzata nelle stazioni di pompaggio, in seguito per la movimentazione del minerale estratto, diede origine anche alla locomotiva e ai primi treni merci e passeggeri (George Stephenson, Inghilterra, 1825). 

Il perfezionamento della macchina a vapore portò con sé diverse importanti conseguenze: a) qualsiasi attività produttiva poteva, grazie al vapore, aver luogo anche lontano dalle fonti energetiche naturali: persino tra le mura delle città, dove era più facile trovare braccia disposte a faticare e acquirenti per il prodotto finito; b) la disponibilità pressoché illimitata di energia non poneva più alcun limite alla crescita della produzione industriale, se non quelli fisicamente imposti dal numero degli addetti e dalla disponibilità di materie prime; c) i fumi e i rumori delle nuove fabbriche allontanarono dal centro cittadino i ceti nobiliari e più abbienti, presto sostituiti dalla consistente immigrazione proletaria proveniente dalle campagne.

In brevissimo tempo, l’urbanesimo cambiò il volto delle città, cresciute a dismisura e rese irrespirabili dallo smog, neologismo che fondeva in sé il puzzo dello smoke (fumo) e il cielo offuscato dal fog (nebbia): una consistente e persistente coltre che faceva da chioma a quella foresta di altissime ciminiere che, nel corso di un secolo, ridisegnò lo skyline delle nuove città, ingranditesi a dismisura e annerite dal carbone. 

La grande novità dei nostri giorni, ancora non pienamente metabolizzata dall’opinione pubblica, è che l’Età Industriale in Occidente è finita. In America dal 1990, in Europa dal 2000, in Cina mostra oggi i primi segni di stanchezza, in India è al culmine, in Africa appena agli albori. 

La fine dell’Età Industriale non significa certo la fine dell’industria: i «prodotti» di cui l’umanità necessita si chiamano in tal modo perché qualcuno (o qualcosa) li produce. Ma quel «qualcosa» non è più la chiave inglese o il martello, subito padroneggiabili anche da chi è privo di qualsiasi formazione o addestramento, ma un complesso macchinario che necessita sì di poco personale, ma perfettamente addestrato. 

Pian piano spopolatesi, i fumose e fragorosi stabilimenti industriali si son lentamente mossi oltre la cinta urbana, per poi lentamente scomparire. Milano, in Età Industriale, poteva vantare ben sette fabbriche di automobili: Isotta Fraschini, Zagato, Iso Rivolta, Lancia, Alfa Romeo, Innocenti, Autobianchi, per non parlare delle decine di marchi ciclistici e motociclistici, o dei grandi marchi di elettrodomestici come Triplex, Candy, Zoppas, Lesa...

Chiuse le grandi fabbriche, la manodopera meno qualificata (tutta) si ritrovò letteralmente per strada. E non la strada del centro cittadino, dall’aria ormai tornata respirabile ed in via di ripopolamento da parte di quei ceti dirigenti un tempo in fuga, ed oggi strenui sostenitori di zone pedonali, bici e monopattini.  

Milano ha mostrato, nei mutamenti imposti dalla Storia, grande vitalità e buone capacità di adattamento. Finita l’Età Industriale, dopo un momento di sbandamento che ha visto esplodere prima la criminalità, poi il terrorismo e quindi le insurrezioni popolari, ha saputo velocemente riciclarsi dal bullone alla comunicazione (radiotelevisioni private, editoria, pubblicità), quindi nella moda e nel design che, grazie anche a quei mezzi propagandistici, non han tardato molto ad affermarsi sul mercato.

Oggi, quando l’industria necessita di personale dotato di capacità professionali d’alto livello, grande importanza assumono i centri di formazione e ricerca, dalle scuole alle università, che richiamano in città non più braccia strappate alle incertezze dell’agricoltura, ma giovani desiderosi di crescere ed affermarsi. Che in comune con quegli antichi immigrati hanno giusto l’aria che riempie (o meglio svuota) i malnutriti spazi delle smunte tasche.  

Con la sola aria non si paga l’affitto, è vero, ma di quei giovani Milano ha bisogno più che dell’aria: una città, come una famiglia, cresce se sa far crescere i propri figli. 

I Paesi in ritardo sulla Storia godono del vantaggio di non dover inventar nulla di nuovo: è sufficiente loro copiare il meglio dagli altri. 

C’è un problema abitativo? Sì. Riguarda le famiglie profughe dalle campagne? No: riguarda giovani volenterosi. L’ospitalità può limitarsi come allora ad un lurido letto per dormire? No: non si tratta di mettere in garage per la notte un operaio annientato da dodici ore di lavoro. Servono spazi vivibili, dove studiare e socializzare. 

Nel mondo sviluppato esistono gli alloggi universitari: case dello studente a prezzi accessibili che dispongono di spazi comuni per l’incontro, lo studio, lo sport, non distanti dalla sede scolastica. 

La questione abitativa riguarda anche quei dipendenti (insegnanti, medici, forze dell’ordine, ferrovieri...) costretti a risiedere in città molto costose con le medesime risorse di chi vive invece in un piccolo villaggio di montagna. 

Anche in questo caso non c’è che da copiare. Non si tratta di aumentare la paga, ma di sostenerla con benefit simili a quelli che, nel settore privato, sono offerti ai dipendenti che accettano di trasferirsi in sedi particolarmente costose: indennità di alloggio, di trasporto, di studio. Come già accade, ad esempio, al personale della Pubblica Amministrazione destinato all’estero in località particolarmente disagiate, per via del costo o della sicurezza.

Ben venga, dunque, anche il mattone, purché sia strumento di crescita e non di speculazione. Perché la speculazione arricchisce soltanto i pochi che la praticano: non l’intera comunità. 

Oggi a Milano anche la moda segna il passo: gli arricchiti di qualche generazione or sono, invecchiati come il buon vino, son diventati «ricchi» a tutti gli effetti: non più accecati dalla bramosia di denaro, ma benestanti desiderosi di spenderlo. E non certo nel lusso, che è il lato volgare della ricchezza (Trump e Casamonica docent!), ma nell’eleganza e nel saper vivere.

Dopo l’industria, la moda, l’immagine, Milano è ancora una volta costretta a reinventarsi. 

Nessuno dubita che abbia le idee e le energie necessarie per farlo. Ma sarà sufficiente elevare altri grattacieli al Cielo, per ottenerne la grazia? 

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