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Università e monasteri

C’era una volta il monastero: comunità di monaci o monache che vivevano di preghiera e di lavoro. 

Fino all’anno Mille, il monastero fu anche l’unico luogo in fosse possibile dedicarsi agli studi. Principalmente dei testi sacri, ma anche di alcuni testi dell’antichità. Molti dei quali introvabili, prima che, nel 1455, Gutenberg inventasse il libro a stampa con caratteri mobili, facilmente replicabile in centinaia di esemplari.

Oltre ad un certo quantitativo di volumi scritti, il monastero offriva allo studioso silenzio, solitudine, tempo, compagnia qualificata ed occasioni di conversazione. 

Diversi erano tuttavia i suoi limiti. 

Uno di questi era certamente l’orientamento quasi esclusivamente filosofico-religioso degli studi, causa prima della scomparsa di molti antichi codici, pazientemente erasi per poterne poi riutilizzare la pergamena come materiale di scrittura per testi più graditi a Dio. 

Con l’eccezione di pochi trattati d’agricoltura, ancora utili per le necessità quotidiane della comunità, molti preziosi volumi furono letteralmente cancellati, e solo in età contemporanea parzialmente recuperati e salvati. 

Seppure rigidamente separato per sessi e con un orizzonte di studi assai limitato, il monastero contribuì non poco alla conservazione e trasmissione del sapere lungo tutto l’Alto Medioevo. 

* * * * *

L’avvento dell’Età Comunale, a partire dall’Anno Mille, con il sorgere di nuovi bisogni cognitivi e nuove scienze, rese ben presto obsoleti gli antichi monasteri, 

Lasciate le campagne e riportate a nuova vita le antiche città romane, risorte come vivaci crocevia di crescenti scambi prima commerciali e poi economici, stimolo di traffici marittimi così come della sistemazione di edifici e di strade, gli abitanti dei neonati Comuni si diedero presto autonomi organi di governo, non di rado in lotta con l’onnipresente potere della Chiesa. 

Filosofia e religione si rivelarono insufficienti per dare adeguata risposta alle troppe nuove domande sollevate da un Medioevo ormai avviato verso il tramonto. 

Come costruire un tetto sicuro per le merci? Come riparare un’antica arcata? Come calcolare interessi e debiti? Come conservare più a lungo gli alimenti durante la navigazione? Come disegnare mappe più precise? Come tracciare una rotta? Come combattere le nuove epidemie importate da Paesi un tempo lontani? Come dialogare, senza più il Latino, tra popolazioni differenti? 

Alla Filosofia e alla Religione si affiancarono ben presto l’Ingegneria, la Medicina, le Lettere, la Geometria, la Ragioneria, le Lingue... Nulla a che vedere con l’antico monastero: luogo di meditazione e discussione su ciò che era noto, piuttosto che di studio e ricerca di quanto era ancora ignoto. Oltre ciò, il monastero era di norma ospitato in luoghi difficilmente raggiungibili, spesso inaccessibili e lontani dai Comuni, nuovo centro economico e culturale della nascente borghesia. 

Nacquero così, ad imitazione delle Corporazioni che riunivano sotto un solo tetto operatori dediti alle medesime attività ed uniti da comuni interessi, le moderne Università degli Studi. 

Da Bologna (1088) ad Oxford (1096), giovani animati da un nuovo desiderio di approfondimento e conoscenza si unirono per pagarsi i propri insegnanti ed i luoghi in cui poter liberamente studiare. Monasteri laici, aperti al nuovo, privi di qualsiasi preconcetto di ordine religioso o morale, rispettosi soltanto della conoscenza. Della Scienza. 

* * * * *

A leggere oggi i giornali, dove fanno notizia alcune tra le più celebri istituzioni universitarie d’Occidente, dalla bostoniana Harvard alla Normale di Pisa, dalla Columbia al MIT, molte delle motivazioni fondanti di quelle Università, in primis massima apertura di pensiero e nessun preconcetto verso il nuovo, paiono oggi aver le gambe impedite dal cemento di un’ideologia fine a se stessa. Che nega tanto l’apertura che il pensiero, tanto la comprensione che il nuovo. 

Ignari della Storia contemporanea non meno che dell’antica, le mele marce di un’università evidentemente non più luogo di studi d’eccellenza, ma costoso passatempo per schiere di inguaribili ignoranti, portano in processione con ingiustificata rabbia bandiere e stendardi di uno Stato che mai è esistito e assai probabilmente mai esisterà. In nome di una «liberazione» tragicamente fallita proprio nell’esperimento di Gaza, dove un territorio piccolo e circoscritto, dotato di smisurate disponibilità economiche offerte dai ricchi Paesi arabi del Golfo così come dalla maggiori organizzazioni internazionali (e persino da Paesi «nemici» come gli USA, l’Italia o lo stesso Israele) amministrato in piena autonomia non da un’autorità palestinese ma dal potentato locale di Hamas, ha mostrato al mondo il proprio sostanziale fallimento. 

Non solo con l’ingiustificabile massacro di civili del 7 Ottobre, ma  – più di ogni altra cosa – con lo stato di arretratezza, miseria e sofferenza in cui Hamas ha mantenuto per 17 anni quella popolazione che avrebbe potuto (e dovuto) vivere in salute, abbondanza e prosperità, in una nuova Dubai assai più vicina all’Europa e dunque ancor più capace di attrarre capitali e visitatori. 

Si è forse discusso di questo, nelle nostre ed altrui università?

No. Non c'è stato alcun confronto o dibattito. Si è urlato, strillato, distrutto e cercato di imporre con la forza il proprio volere, in nome di qualcosa che neppure si conosce. Non diversamente da come, a partire dagli anni Settanta, tanta parte dei giovani americani, calpestando una Storia che ignoravano, si schierarono dalla parte degli Indiani contro l’esercito regolare delle Giubbe Blu, tanto che anche Hollywood dovette adeguarsi, promuovendo a «buoni» i malvagi di un tempo. E tutto ciò non alla luce di nuovi studi o nuove riletture storiche, ma per innato giovanile istinto di ribellione. 

* * * * *

Se l’ignoranza dei giovani non stupisce (e neppure preoccupa, perché è da sempre un male momentaneo facilmente sanabile con gli studi e con l’età) quel che più impensierisce è la cedevolezza di chi di un’università sta a capo. Di chi, per definizione, quella giovanile malattia dovrebbe curarla. Di chi con la Scienza dovrebbe combattere le superstizioni di chi non sa. Di chi è istituzionalmente tenuto a rappresentare il cervello funzionante e sano di una nazione, piuttosto che gli instabili nervi. 

E invece no. Consigli d’amministrazione imbelli han tremato e vacillato di fronte ai proclami di barbari che irrompono nelle loro stanze, dettando ad essi quel che debbano fare o non fare. Esorcisti pronti ad uccidere in caccia di un demonio che esiste solo nella loro immaginazione.    

In cosa potrebbe mai differire un’università di tal fatta da quell’antico monastero luogo di (alcuni e solo alcuni) studi, dove già si conosceva da che parte dovesse stare il Bene e quale dovrebbe conseguentemente essere il Male? Cancellando per tal fine tanto la Storia quanto le prove più evidenti? Raschiando ogni verità dalle antiche pergamene? 

Chi spaccia le proprie menzogne per «libera espressione del pensiero», mentre di fatto imprigiona la Verità tra le catene di una teoria precostituita, può forse essere considerato un «fedele», non certo uno «studioso». 

Legittima scelta. Di un’università come di una nazione. Purché i consigli di amministrazione di quelle università, così sensibili alla menzogna, trovino coerentemente il coraggio di meglio definirsi come «Università dei Fedeli», piuttosto che «Università degli Studi». 

Nessuno avrà da ridire. 

Ma non chiamatelo «progresso». Perché d’altro non si tratta che di medioevo prossimo venturo. 

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