Che un ministero incapace di asfaltare le strade, stendere binari e assicurare il medesimo standard nei trasporti su tutto il territorio nazionale non possieda la necessaria qualità per realizzarlo, questo è sotto gli occhi di tutti.
In Giappone un ministro che tradisse una così alta promessa, sguainerebbe la katana per giustiziarsi da sé in un coraggioso harakiri.
In Germania si limiterebbe a rassegnare all’istante le proprie dimissioni.
In Italia si spenderebbe in lagne alla disperata ricerca di un qualsiasi colpevole purché differente da lui. Molto differente. Come può esserlo un magistrato della Corte dei Conti. Istituzione che, a differenza di altre, quando incomincia un lavoro si studia di portarlo a termine.
E dovendosi occupare di conti (quelli con l’oste, non quelli col feudo) col dovuto scrupolo controlla che quei conti tornino.
«Questa è la casta giudiziaria, che vede il crollo del suo potere e del suo impero!», è la risposta del ministro, membro a pieno titolo della «casta governativa» (forse la più politicizzata fra le tre massime istituzioni).
Sorvolando sul fatto che il potere esecutivo poco avrebbe di che compiacersi di un possibile crollo del potere giudiziario, così come di quello legislativo, la Corte dei Conti si è in effetti limitata a segnalare alcune criticità in materia finanziaria, che si impegna a meglio precisare entro trenta giorni.
Si parla di stime di traffico che, con pedaggi a prezzi politici (pochi euro contro i 55 del ponte di Øresund, tra Danimarca e Svezia), non coprirebbero i costi, così come di una mancata conformità alle norme europee.
La Corte dei Conti, insomma, sta facendo il proprio dovere.
La Corte dei Ponti (il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti) sta facendo il suo?
O è forse un ministero politicizzato, più abile nel pontificare in senso lato, che non in senso proprio?

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