L’improvviso innamoramento della gioventù europea per la causa palestinese (in misura crescente quanto più ci si allontana dal confine russo!) è quanto meno degno di riflessione.
Più che dalla compassione per le (volute) sofferenze della popolazione di Gaza, erroneamente identificata con «i Palestinesi» (nemici dichiarati di Hamas), tanto rancore ideologico pare piuttosto ispirato da due diversi sentimenti: 1) il terrore di una guerra globale innescata dalla Russia, sempre più alle porte; 2) la presa di coscienza della debolezza militare e politica di un’Unione Europea che ancora non si è fatta Stato.
L’Europa è debole, e i deboli simpatizzano per i deboli, identificati stavolta nei civili di Gaza.
È una situazione che ricorda in qualche misura la lunga stagione dell’impegno americano in Vietnam. Anche allora le strade erano piene di giovani e giovanissimi pronti a schierarsi dalla parte dei presunti deboli (che così deboli poi non erano, se è vero che hanno vinto) pur di non finire arruolati con un fucile in mano. E circolava l’illusione che una pace tra Cina e USA, manovratori dei soldatini nei due Vietnam, fosse possibile attraverso il «dialogo».
Che dietro alle tante (troppe) bandiere di Hamas che infestano le strade d’Europa vi sia una buona dose di banale vigliaccheria, due considerazioni paiono suggerirlo: 1) il fatto che tante nazioni si accalchino a riconoscere l’inesistente Stato di Palestina, anziché disconoscere lo Stato di Israele, come sarebbe diplomaticamente più efficace e corretto; 2) l’ineguale distribuzione europea delle simpatie pro-Pal: ai massimi livelli in Spagna, ai minimi in Polonia, là dove il pericolo incombente è visibile dalla finestra di casa.
Al centro del continente, fortunatamente, c’è una Germania che ancora ha incisi sulla pelle non soltanto i segni dei passati crimini hitleriani, ma anche il ricordo degli 11 massacrati alle Olimpiadi di Monaco per mano del terrorismo palestinese (1972). Così come dei 34 morti nell’assalto all’aeroporto di Fiumicino (1973), il dirottamento del volo Air France (1976), l’attentato alla sinagoga di Roma (1982), il sequestro dell’Achille lauro e i 19 morti e 138 feriti dell’attacco congiunto agli aeroporti di Roma e Vienna (1985).
Non male, per un popolo oppresso che, incapace di liberare se stesso, spende tempo, vite e denaro per opprimere il prossimo.
Lo Stato di Israele ha pieno diritto di esistere. Lo ha giuridicamente, in accordo con la delibera ONU del 1947; lo ha militarmente, per aver sconfitto sul campo quella Lega Araba che, ventiquattr’ore dopo la proclamazione, dichiarò guerra ad uno Stato appena nato, più piccolo della Sardegna, la cui popolazione viveva ancora disarmata nelle tende e nelle baracche.
Da allora, Israele ha imparato a crescere, a difendersi e a badare a se stesso. I territori palestinesi, per quanto ricchi e autonomi, evidentemente no.
Il territorio di Gaza, liberato nel 2007 ogni presenza israeliana e protetto da confini sicuri, governato dalla propria gente con ampie risorse finanziarie offerte dai Paesi amici, poteva (doveva) essere la prova generale di un vero Stato palestinese. Il modello in miniatura.
Oggi, a distanza di quasi vent’anni, si può con certezza affermare che quell’esperimento è fallito. Immense quantità di denaro son servite ad acquistare armi e missili, la popolazione civile educata a compiere stragi, con i Paesi sedicenti amici intenti ad asservirla ai loro turpi fini.
C’è una sola via d’uscita. O meglio, due: escano gli ostaggi dagli scantinati; esca Hamas dalla Striscia. Poi si vedrà se, sotto un governo israeliano, gli abitanti di Gaza vivranno peggio o meglio.
Perché la sola cosa che infine conta è una soltanto: la qualità della vita. La possibilità di condurre un’esistenza serena coltivando in libertà le proprie inclinazioni e aspirazioni, circondati da amici e non da nemici.
Non è il mestiere di Hamas.
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