La visione del cosiddetto Manifesto di Ventotene («Per un’Europa libera e unita») attraverso queste speciali ottiche, trasforma magicamente il preveggente documento eurofederalista da lucida condanna delle dittature di ogni colore nel programma di un nuovo totalitarismo antilibertario da imporre all’intera Europa.
Ci siamo quindi ripromessi di leggere il testo di «Per un’Europa libera e unita» lasciando nel cassetto i melonici occhiali, e quel che abbiamo trovato è una visione socialista del futuro del Continente, che prende equamente le distanze tanto dal liberalismo democratico (la «destra» di allora, madre dei fascismi e del nazionalsocialismo) ma ancor più dal regime comunista da pochi anni instaurato in Russia.
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L’incipt del testo è chiarissimo, nel caso già non lo fosse a sufficienza il titolo. Al centro c’è una fortissima aspirazione alla perduta libertà: «La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita».
Purtroppo, però, «la sovranità assoluta degli Stati nazionali ha portato alla volontà di dominio sugli altri e considera suo “spazio vitale” territori sempre più vasti».
Tale spinta espansiva ha presto assunto il volto di una lunga serie di conflitti bellici, tanto che persino i brevi periodi di pace sono «considerati come soste per la preparazione alle inevitabili guerre successive».
Tutto è in funzione della guerra: «la scuola, la scienza, la produzione, l’organismo amministrativo sono principalmente diretti ad aumentare il potenziale bellico; le madri vengono considerate come fattrici di soldati, ed in conseguenza premiate con gli stessi criteri con i quali alle mostre si premiano le bestie prolifiche; i bambini vengono educati fin dalla più tenera età al mestiere delle armi e dell’odio per gli stranieri; le libertà individuali si riducono a nulla, dal momento che tutti sono militarizzati e continuamente chiamati a prestar servizio militare».
Por fine alla guerra, tuttavia, non basta a conquistare una vera pace: «La sconfitta della Germania non porterebbe automaticamente al riordinamento dell’Europa secondo il nostro ideale di civiltà».
Anche la sparizione del regime nazista sarebbe percepita come una breve pausa, e in poco tempo altre forze, altre nazioni ricomincerebbero a combattersi.
Non c’è altra soluzione se non quella di riunire tutti popoli sotto una sola bandiera. Stremati dalle guerre, «gli spiriti sono già ora molto meglio disposti che in passato ad una riorganizzazione federale dell’Europa».
Valida ancor oggi è l’osservazione che le dinastie regali già rappresentavano «con i poderosi interessi di cui erano l’appoggio, un serio ostacolo alla organizzazione razionale degli Stati Uniti d’Europa, i quali non possono poggiare che sulle Costituzioni repubblicane di tutti i Paesi federati». E che «la federazione europea è l’unica garanzia concepibile che i rapporti con i popoli asiatici e americani possano svolgersi su una base di pacifica cooperazione».
Con largo anticipo, gli autori intuiscono che la vera divisione politica non è più tra destre o sinistre, ma tra nazionalisti e federalisti: «La linea di divisione fra i partiti progressisti e i partiti reazionari cade perciò, ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta, quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale [...] e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale».
Se non esiste (ieri come oggi) un partito che ponga al centro il sogno federalista, «occorre fin d’ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far sorgere il nuovo organismo, che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un largo Stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali, spazzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari, abbia gli organi e i mezzi sufficienti per fare eseguire nei singoli Stati federali le sue deliberazioni, dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli Stati stessi l'autonomia che consente una plastica articolazione e lo sviluppo della vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli».
La ricetta è quella socialista, vista ancora (come fino agli anni Sessanta del secolo scorso) in netta contrapposizione alla via comunista: «La bussola di orientamento […] non può essere però il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita, e tollerata solo in linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno. La statizzazione generale dell’economia è stata la prima forma utopistica in cui le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione del giogo capitalista, ma, una volta realizzata a pieno, non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell'economia, come è avvenuto in Russia».
Ben altri sono gli ideali socialisti: «La solidarietà sociale verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica dovrà perciò manifestarsi non con le forme caritative, sempre avvilenti, e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente».
Il nuovo partito eurofederalista, per affermarsi, deve dar vita a regole nuove, piuttosto che applicare quelle esistenti, rivelatesi ampiamente fallimentari. Da ciò la forte critica al metodo democratico: «Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente». Accompagnata da una parimenti feroce critica verso i fallimentari risultati del comunismo: «Una situazione dove i comunisti contassero come forza politica dominante significherebbe non uno sviluppo in senso rivoluzionario, ma già il fallimento del rinnovamento europeo».
Tuttavia «Larghissime masse restano ancora influenzate o influenzabili dalle vecchie tendenze democratiche e comuniste», per cui sarà comunque indispensabile «collaborare con le forze democratiche, con quelle comuniste, ed in genere con quanti cooperano alla disgregazione del totalitarismo, ma senza lasciarsi irretire dalla loro prassi politica». In una sorta di “campo largo” ante litteram!
«Qualsiasi movimento che fallisca nel compito di alleanza di queste forze è condannato alla sterilità, poiché, se è movimento di soli intellettuali, sarà privo di quella forza di massa necessaria per travolgere le resistenze reazionarie [...] Se poggerà solo sulla classe operaia sarà privo di quella chiarezza di pensiero che non può venire che dagli intellettuali, e che è necessaria per ben distinguere i nuovi compiti e le nuove vie: rimarrà prigioniero del vecchio classismo, vedrà nemici dappertutto, e sdrucciolerà sulla dottrinaria soluzione comunista».
Una via di mezzo, dunque, tra il liberalismo classico e i nuovi partiti operai. Una forza nuova, per ciò stesso rivoluzionaria. Dunque un pericolo per la libertà individuale?
«Non è da temere che un tale regime rivoluzionario debba necessariamente sbocciare in un nuovo dispotismo. Vi sbocca se è venuto modellando un tipo di società servile. Ma se il partito rivoluzionario andrà creando con polso fermo fin dai primissimi passi le condizioni per una vita libera, in cui tutti i cittadini possano veramente partecipare alla vita dello Stato, la sua evoluzione sarà, anche se attraverso eventuali secondarie crisi politiche, nel senso di una progressiva comprensione ed accettazione da parte di tutti del nuovo ordine, e perciò nel senso di una crescente possibilità di funzionamento di istituzioni politiche libere».
Da queste poche righe, qualche anno dopo è nata la Costituzione della Repubblica Italiana.
Da qui a pochi anni, gli uomini di senno si augurano possa prender vita il sempre più inderogabile Stato Federale Europeo.
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Concludiamo osservando come, dopo questa lettura, il testo di Ventotene ci sia apparso sotto una luce ben diversa da quella filtrata attraverso le vegetali lenti del melonocchiale.
O meglio: più che diversa, una luce decisamente opposta.
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