Così come negli anni Sessanta la condanna da parte dei giovani americani del coinvolgimento USA nel conflitto vietnamita adornò di nobili motivazioni l’affacciarsi al mondo di una generazione postbellica educata alla pace e portatrice di differenti ideali di vita, incarnati nella rivendicazione di maggiori diritti, dall’aborto alla liberazione della sessualità, l’attuale protesta delle élite universitarie denuncia la fine di ogni certezza finora legata al (costosissimo) titolo di studio: vittima della transizione dalla «società piramidale» – ereditata dall’aristocrazia e preservata dalla borghesia nella gerarchia sociale dell’età industriale – all’attuale «società reticolare» (web), ancora in via di definizione e normalizzazione.
Se n’è parlato in tempi non sospetti (Il suddito nudo): la fine dell’età industriale, morta in USA negli anni Novanta ed in Europa dal Duemila, ancora vitale in Asia e appena agli albori in Africa, ha portato con sé la fine dell’organizzazione piramidale, e con essa l’idea di un percorso di carriera certo, segnato da tappe progressive ben definite che premiano la conoscenza, la competenza e il merito.
«La vecchia società piramidale — scrivevamo allora — offriva assai meno libertà, ma più ferme certezze. La nuova età reticolare offre molta più libertà, ma senza alcuna certezza. Non esiste più un percorso di vita predefinito e certo: non esiste una strada condivisa, tracciata da segnaletica e paracarri, ma solo una sommaria direzione da scegliere a proprio rischio e pericolo. Intuitivamente».
Non c’è più l’assoluta certezza che un titolo di studio prestigioso, tanto faticosamente conquistato in un’istituzione altrettanto prestigiosa, garantisca di per sé un facile avvenire di successo e di ricchezza. Nulla vieta, nella società reticolare, che un qualsiasi terrapiattista, ciarlatano, arruffapopoli o santone divenga un influencer con milioni di seguaci in grado di conferirgli autorità, sacralità, credibilità e ricchezza. Senza per questo dover investire fino a un milione di dollari in lunghi e faticosi studi, ma giusto i pochi spiccioli di un telefonino tascabile.
È ancora una volta la tecnologia a cambiare il mondo, e non viceversa.
Così come la rivoluzione pacifista sessuale degli anni Sessanta («Fate l’amore, non fate la guerra») nacque dalla scoperta di nuovi efficaci farmaci anticoncezionali, la rivolta delle élite universitarie denuncia la fine dell’equazione sapere=potere, scalzata dalla nuova eguaglianza piacere=potere. Vince chi più piace alle masse, non chi possiede quelle conoscenze un tempo richieste per sedersi al volante. Un monopattino si guida senza patente, ed è più agile e veloce di una lussuosa e possente automobile incastrata nel traffico.
Forse per questo lo scontro non è oggi tra un Ettore e un Achille, ma fra un Biden e un Trump: tra una saggezza troppo vecchia per potersi reggere in piedi e il chiassoso sregolato ardire dell’insipienza. Differenti debolezze che comunque necessitano di abiti dignitosi sotto i quali mascherarsi, siano essi la difesa della democrazia o la grandezza (again) dell’America.
Allo stesso modo, l’elegante abito della difesa degli oppressi (Hamas?) ricopre oggi l’inadeguatezza di una generazione che la pandemia ha tenuto per anni lontana dai banchi: ignoranza che si somma alla deludente fine di ogni automatismo fra titolo di studio (acquisito a così caro prezzo) e posizione sociale.
Ed è proprio dall’incertezza che nasce la rabbia, e dalla rabbia il disordine, e dal disordine – talvolta – la guerra.
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