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Er benzinaro

Seduto sulla riva del fiume, dove pazientemente attende di veder passare il cadavere dei nemici, il presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping ha colto di sorpresa il mondo stringendo la mano al Primo Ministro della Repubblica dell’India Narendra Modi, relegando con tal gesto Vladimir Putin, autosupposto protagonista dell’incontro, ad un più umile ruolo di decorativa comparsa. Ruolo che meglio si addice a chi è padrone di una nazione vasta e ricca, ma primitiva e disabitata (meno di 150 milioni di abitanti), quando le due maggiori potenze industriali dell’età contemporanea, India e Cina, ne contano complessivamente ben 2,86 miliardi. Diciannove volte più della Russia. 

Sbarcato in Cina da padrone, Putin torna in patria da servitore: fornitore di gas, petrolio ed altre materie prime a due Paesi (India e Cina) che sanno come trasformarle in ricchezza. Anziché in armi e in pessima vodka. 

Da acclamato comproprietario del mondo, in Alaska, ad umile benzinaio alla pompa, in quel di Tianjin, Cina.

* * * * *

Il mondo è a una svolta. La fine dell’età industriale in Occidente ha in principio dato vita ad un’imprevista spartizione dei compiti: un Occidente che studia e progetta (software del mondo) ed un Oriente che lavora e realizza (hardware del mondo). Prova inoppugnabile di tale bipartizione è il fatto che, mentre la Cina non ha difficoltà alcuna nel produrre ottimi televisori per tutto il pianeta, non è tuttavia in grado di riempirli di contenuti: film, serie, format televisivi, musica. Così come non ha mai saputo imporre un proprio sistema operativo in quei computer e telefonini che pure fabbrica a miliardi.

Qualcosa di simile accade in India, quarto produttore automobilistico al mondo, dove si fabbricano ottimi veicoli a marchio Nissan, Renault, Hyundai, Stellantis, Volkswagen, Jaguar, Land Rover, Skoda, Volvo, ma nessuno si è mostrato sinora in grado di disegnare una nuova Lamborghini o una nuova Ferrari indiane. Dove si confezionano ottimi capi d’abbigliamento intessuti con cotone di altissima qualità (indiano ed egiziano) senza tuttavia riuscire ad inventare alcunché di veramente nuovo nel redditizio settore della moda.

Il mondo continua a muoversi con braccia orientali e cervello occidentale. Ma Xi Jinping intende adesso sfruttare la spaccatura voluta da Donald Trump in Occidente per valicare quell’ultimo scalino: un’anima cinese dentro il corpo cinese di computer, telefoni, radio e televisioni prodotti in Oriente. Ha dalla sua, dopo la stretta di mano con Modi, una buona metà del pianeta desiderosa di progresso e di riscatto, ha invece contro la barriera della lingua e la persistente rigidità politica di un Paese, il suo, guidato da un solo partito. 

Ma la strada è tracciata. 

Anche l’Oriente ha compreso che l’Età Industriale non può durare in eterno, e quel modo di produzione obsoleto in Occidente, prossimo alla fine in Cina, in pieno fulgore in India e ai primi passi in Africa, sarà prima o poi superato da modi di produzione sempre più automatizzati e meno invasivi. Ed anche più redditizi. 

La ricchezza, nel Terzo Millennio, non nasce più dal plusvalore di marxiana memoria, frutto del malpagato lavoro di operai analfabeti inchiodati alla catena di montaggio. La globalizzazione ha innescato una corsa al ribasso dei prezzi resa possibile solo dalle basse paghe di quei Paesi che solo adesso si accostano al modo di produzione industriale. Oggi l’Oriente, domani l’Africa, 

Se solo negli anni Sessanta un paio di scarpe poteva costare in Italia lo stipendio di un mese, e un paio di pantaloni quello di due settimane, oggi è sufficiente una giornata di lavoro (in Occidente) per acquistare le prime e poco più per accaparrarsi i secondi (purché prodotti, a bassissimo costo, in Oriente).

Resistono in Occidente le produzioni di prestigio, artigianali e non più industriali: il maglioncino da quattromila euro, l’orologio da centomila, l’auto sportiva da ottocentomila. Ma non è certo con quella scarsa quantità di prodotti, venduti a pochissimi acquirenti, che ci si può arricchire oggi nel mondo. 

Il vero guadagno, nel Terzo Millennio, non sta più nel portar via tanti soldi a quei pochi che ne hanno, ma nel sottrarre un solo euro, o anche meno, a otto miliardi di persone. Vendendo loro non un prodotto ma un servizio: l’accesso alla rete, il canone annuale di un software, l’abbonamento a un quotidiano online (trasformatosi anch’esso da prodotto in servizio), il noleggio di un film, la visione di un avvenimento sportivo...

Il software ha oggi la meglio sull’hardware. Quando i primi desktop mossi dal lentissimo chip 286 costavano quanto un’utilitaria, il software (quando non incluso nel prezzo) costava in proporzione cento volte di meno dell’hardware. Oggi il costo del software supera talvolta quello dell’hardware

Oltre ciò, la massificazione del web ha fatto del software un formidabile strumento di potere. Le reti social sono oggi in grado di orientare in brevissimo tempo, culturalmente e politicamente, spropositate quantità di persone. Più della radio al tempo del nazifascismo. Più della televisione in era atlantico-democristiana.

La grande muraglia del Terzo Millennio passa oggi lungo quella direttrice. 

Trump, da palazzinaro qual è, non l’ha capito: sogna un ritorno dell’industria pesante negli USA ma caccia dal Paese quei disperati che soli potrebbero alimentarla, per una paga comunque dieci volte superiore rispetto a quelle d’Oriente, ritrovandosi così su una sponda politica opposta rispetto a quella di un Musk. 

Putin l’ha capito ancor meno: crede solo nella forza pura. Dunque nel solo hardware privo di qualsiasi software. È a capo di un Paese che nulla produce ma solo raccoglie, e solo per quello (gas, petrolio, oro, diamanti, cobalto, uranio) è timidamente corteggiato da tanti.

Xi Jinping mostra invece di averlo capito assai benissimo. Ha già delocalizzato l’intero comparto tessile in Africa, per meglio dedicarsi all’industria pesante, al comparto bellico e all’elettronica. E tenta di inserirsi nei proficui mondi della produzione cinetelevisiva, della ricerca, del turismo. 

* * * *

Se sarà questo il palcoscenico dei restanti tre quarti di secolo, quale strada dovrà più opportunamente intraprendere un continente europeo che non intenda rassegnarsi ad esser nuovamente spartito come un qualsiasi bottino di guerra, stavolta tra un’America in declino ed un Indo-Cina in ascesa? O peggio ancora, a diventare il parco giochi dei nuovi ricchi? Lo zoo-museo dove poter osservare i reperti viventi e/o scomparsi della Storia del mondo?

L’Europa deve innanzitutto farsi Stato: quello Stato Federale che ancora non è. Con veri poteri legislativi, esecutivi e giudiziari, con una propria moneta e con propri confini: tre cose che ancora non possiede. E deve continuare a proporsi come modello coltivando la produzioni d’eccellenza, dalle automobili alla musica, dall’alimentare alla moda, dal turismo al cinema, dalle scuole di prestigio ai grandi centri di ricerca. 

Se gli USA di Trump vogliono tornare agli altiforni, e la Cina si illude di poter fare affidamento solo sulle proprie menti, la difesa del libero pensiero resta nelle mani degli Europei, della loro fertile quanto cruenta Storia, della capacità che ha mostrato quel Continente di morire e risorgere più volte in così tante e differenti forme. Sempre lì. Non più al centro del mondo, forse, ma quantomeno al centro del planisfero. Se non altro perché son stati proprio loro ad inventarlo: gli Europei. 

Nell’attesa, dovendo forzosamente scegliere tra una nuova America amica delle mafie – così ben significata in quello Studio Ovale velocemente involutosi da Casa Bianca a Casamonica – ed una Cina in cerca di promozione sociale, a qual parte dovrebbe preferibilmente mirare l’Europa?

La prima (auspicabile) risposta dovrebbe essere: a sé stessa. A superare in un sol colpo infanzia, adolescenza e giovinezza per mostrarsi finalmente adulta. In poche parole: capace di decidere e di agire. Dotandosi degli strumenti necessari per farlo: a partire da una Costituzione che le conferisca quei poteri, quella moneta comune e quei confini condivisi che adesso non ha. 

In seconda battuta, tra una Cina e un’India ferme all’età industriale (che più dell’aria necessitano pertanto  di una pace solida e globale, onde poter meglio vendere i loro prodotti) ed un Trump che strizza l’occhio all’invidiato Putin (credendolo capace di risolvere in sua vece le questioni ancora aperte della politica estera USA) e tiene per sé i guadagni di un’economia interna piegata al proprio personale profitto, la scelta non è difficile. 

Al di là di qualsiasi istintiva simpatia o antipatia, all’Europa conviene guardare a quella stabilità globale di cui né la Cina né l’India possono oggi fare a meno, che non ai pericolosi desideri di rivalsa di un misero arricchito, privo di studi, intrufolatosi non si sa come alla Casa Bianca, ed un nullafacente guerrafondaio che, atteggiandosi a Zar, pretende un rispetto che non merita, e che il mondo lo mantenga a sbafo in cambio di quelle ricchezze che il sottosuolo gli regala. 

Il libero commercio non può prosperare senza libertà, così come la libertà non può esistere senza una permanente condizione di pace. L’arricchimento personale, al contrario, necessita non di uomini liberi ma di sudditi devoti, non pochi dei quali bramosi di sottomettersi per innato servilismo, altri costretti a farlo con la forza. Dunque con le armi. 

Gli Europei cresciuti al cinema, ricordando d’aver a suo tempo parteggiato per John Wayne, acerrimo nemico dei «musi gialli», faticheranno forse a comprenderlo. Ma in un mondo che mai come oggi puzza di guerra, si respira profumo di pace più in India o in Cina che non in quel di Washigton o di Mosca.  

 

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