Ciò stabilito, pronunciarsi contro una sentenza della Magistratura, significa opporsi e contrapporsi alla volontà del Parlamento.
Se a farlo è una persona, fisica o giuridica, soggetta alla legge italiana, che si ritenga danneggiata da una sentenza che ritenga errata o ingiusta, è in suo potere impugnare la sentenza e chiedere un riesame del giudizio, ed eventualmente un’ulteriore conferma in terzo grado. Ma certamente non è nei poteri di un Governo contestare una sentenza della Magistratura che riguardi persone (fisiche o giuridiche) terze.
La vera separazione delle carriere, quella che in Italia urge e necessita, non è certo quella tra magistrato inquirente e magistrato giudicante (peraltro già di fatto distinti dall’obbligo decennale di permanenza in uno dei due differenti incarichi), quanto piuttosto quella tra poteri dello Stato: tra Parlamentare e Ministro, così come tra Ministro e Magistrato o tra Parlamentare e Magistrato.
Ha un senso che la medesima persona, oggi, possa dare un ordine (in veste di Parlamentare) a se stesso (in veste di Ministro)? Il rischio è che quella persona, possa scriversi da sé una o più leggi su misura, a beneficio proprio o dei suoi accoliti. O che affossi in Parlamento una legge non gradita a quel Governo di cui fa parte.
Non esiste, nella Costituzione italiana, un articolo che esplicitamente sancisca quella netta divisione di poteri posta da Montesquieu alla base di ogni ordinamento repubblicano democratico, che resta tuttavia implicita nella Parte II dello Statuto, dove si tratta dell’ordinamento dello Stato.
Chi addita la Magistratura come unica responsabile delle lentezze procedurali che allungano di decenni la durata dei processi, imputandola alla (parziale) separazione delle carriere tra Magistrato inquirente e Magistrato giudicante, giungendo ad accusare il primo di «mancata terzietà» (doverosa per il giudicante, ma non certo per l’inquirente che, al contrario, deve schierarsi con nettezza al fianco di chi accusa), dimentica che un conto è il «giudizio», un altro è la «giustizia».
Il giudizio compete solo ed esclusivamente al Magistrato, l’amministrazione della giustizia compete invece al Governo, nella persona del Ministro della Giustizia.
A lui, ed a lui soltanto, spetta far sì che le strutture, il personale, gli strumenti e le dotazioni necessarie al buon andamento della giustizia siano perfettamente efficienti e commisurate alla mole di lavoro che quell’amministrazione è chiamata a svolgere.
Esemplificando, il Magistrato è il prete che canta messa, e la sua parola è legge (perché pronunciata in nome di quel Parlamento che ogni legge scrive o cancella). Ma edificare la chiesa, arredarla, tenerla pulita e sostenerne le spese, è mestiere dell’organizzazione ecclesiastica. Fuor di metafora, del Governo.
Un Governo che ad alte grida si lagni dell’amministrazione della Giustizia, sta dunque lagnandosi di se stesso. Della propria inadeguatezza nell’assicurare la massima efficienza a quelle strutture e a quelle procedure attraverso le quali l’opera della Magistratura è resa esecutiva.
Più facile, per un Governo incapace, additare un colpevole esterno. Meglio se contiguo: ora la Magistratura che ne ostacola il «lavoro», ora il Parlamento che non sa scrivere le leggi.
Ma in mancanza di un’effettiva separazione dei poteri, con tante persone che occupano sia un seggio in Parlamento che una poltrona nel Governo, meglio accusare la Magistratura: il solo potere dello Stato i cui membri non sono eletti (come in Parlamento) o nominati (come il Governo), ma scrupolosamente selezionati tra persone di provata preparazione e documentata onestà. Non a caso, per meglio garantirne l’indipendenza, il Consiglio Superiore della Magistratura è presieduto dal Capo dello Stato.
Le sortite governative, partitiche e parlamentari contro la Magistratura risalgono agli anni delle vicende note col nome di «Mani Pulite» (1992), quando le inchieste sulla corruzione dei principali partiti di allora portarono all’arresto e alla condanna di molti esponenti di spicco, determinando la fine della primazia democristiana ed aprendo la via a nuove formazioni politiche, diverse delle quali sostenute a livello propagandistico dall’allora nascente emittenza radiotelevisiva privata.
Persino le nuove formazioni politiche giunte al potere cavalcando l’onda di Tangentopoli, una volta appoltronatesi alzarono anch’esse la voce contro la Magistratura, la cui visibilità mediatica era andata in quegli anni sensibilmente accrescendosi.
Da allora, non c’è politico dalle mani più o meno ripulite che non abbia iscritto a proprio nemico l’intera Magistratura, inquirente o giudicante che sia.
La considerazione più semplice è ancora quella dei nostri nonni, la stessa di chi da bimbo giocava a guardie e ladri: chi ha paura dei Magistrati? I criminali. Non altri.
E così in effetti è.
Accusare la Magistratura delle inefficienze dello Stato è una sorta di autoconfessione.
Perseguitarla, con azioni e parole, è una prova schiacciante.

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