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Lo zoo

Chiamatelo zoo, o anche eufemisticamente «bioparco», ma nessuno è più entusiasta di quei bambini che la ventura di visitarne per la prima volta uno. Grandicello o ancora in culla, più o meno inconsciamente qualsiasi bimbo percepisce all’istante come anche il più grosso, il più bello, il più dotato, il più feroce degli animali sia comunque inferiore ad essi.

Il bimbo intuisce che non potrà mai volare come un’aquila, arrampicarsi come un babbuino, guizzare come un delfino o aver la forza di un orso, ma dal confronto esce sempre e comunque vincitore: tutti gli animali non hanno nel muso che una sola espressione, emettono un verso soltanto e possiedono una sola abilità. Un bimbo, al contrario, è sin dalla nascita capace di mille espressioni e sonorità, prova gioia e dolore, si esprime con il riso o con il pianto, cerca di migliorarsi costruendo nel tempo un proprio piano di sopravvivenza, che nell’animale è invece predeterminato e istintivo. 

Nella sua minuta fragilità, un bimbo di fronte a un animale è sempre e comunque un gigante. Guarda la bestia negli occhi e riconosce la propria superiorità di essere umano. Così rassicurandosi e nutrendo la propria autostima. 

Una volta adulto, pienamente conscio della primazia dell’uomo sulla bestia, gli animali nei recinti potranno ancora suscitare in lui sentimenti di compassione, o anche di immedesimazione (troppi umani scialacquano la propria vita rinchiudendosi in uno stretto recinto da essi stessi costruito), ma non più quell’infantile sorpresa di inattesa diversità. 

Quel forte sentimento – un tempo artificialmente ricreato negli spettacoli circensi, dove accanto agli animali si esibivano umani altrettanto monospecialisti, dotati di una sola abilità portata all’estremo, come il volo dei trapezisti o altre esibizioni di straordinaria agilità e di forza – gli adulti possono ancora ritrovalo in quei moderni serragli televisivi che, al di là dello schermo, mostrano azzannarsi l’un l’altro gli sguatteri della politica: portaborse e rubaborse capaci anch’essi di una sola espressione, di un solo raglio, di un solo ruggito, di una sola idea infissa a martellate in quell’angusto e vuoto spazio che separa le ristrette pareti del cranio. 

Gli adulti osservano divertiti quelle maschere sempre uguali, ne ascoltano il verso, le vedono ripetere le medesime giravolte e si compiacciono nel percepire ancora una volta quanta distanza separi l’essere umano dagli animali: quell’umana capacità di analizzare, valutare e discernere, di volgere tutt’intorno lo sguardo anziché indirizzarlo su un punto soltanto e lì fissarlo. Costruendo le proprie fissazioni. 

Tra le prime qualità di un uomo vi è certamente l’imparzialità del giudizio, primo fondamento di ogni autentico progresso filosofico e scientifico: osservare la realtà senza alcun preconcetto e trarne le dovute conclusioni. Per poi verificarne, sperimentandole, l’esattezza. 

L’animale, al contrario, non progredisce: fabbrica il proprio nido allo stesso modo di un milione di anni fa. Ripete all’infinito i medesimi gesti e conserva nei millenni l’avversione per il naturale nemico: il gatto contro il topo, il lupo contro l’agnello, la volpe contro gli uccelli. 

Altrettanto nemico del progresso è lo zoo televisivo dei politicamente corrotti. Anche quando – per meglio catturare la preda – c’è chi ama presentarsi sotto le mendaci pelli del «progressista», salvo poi rivelarsi al primo raglio per quel che realmente è: un animale guidato dalle proprie naturali avversioni. Dall’istinto, piuttosto che dalla conoscenza. 

Il raglio che lo sbugiarda assume spesso sul piccolo schermo la veste del «no». No al riarmo, no al nucleare, no all’Unione Europea, no allo sviluppo, no al cambiamento, no alla legge, no alle regole, no alle tasse, no ai vaccini, no alle «scie chimiche», no e poi ancora no. A tutto.

Come un autista che, giunto all’incrocio, temendo di imboccare una qualsiasi delle possibili strade, si riduce a volgere il mezzo e tornare indietro, invece che andare avanti. E definisce quel retrocedere «progresso». 

Chi da bimbo ha frequentato i giardini zoologici non ha difficoltà a riconoscere i più bestiali istinti dei sottopancia della politica, a cominciare dalla millenaria ostilità tra le specie: non solo la lotta tra il leone e la gazzella, ma anche lo svolazzare della mosca per infastidire l’elefante. 

E ancora una volta lo rassicura il sentirsi – per quanto fatto anch’egli di marcescibili carni e di fragili ossa – tanto immensamente superiore e diverso. 

 

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