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Quando la Storia mette il turbo

Un inatteso Walter Veltroni, felicemente sopravvissuto alla politica e restituito alla specie umana, celebra sulla prima pagina del Corriere della Sera la definitiva scomparsa della Serietà. 

Il diffuso terrapiattismo che da tempo appiattisce il web s’è insediato persino alla Casa Bianca, e da lì, un po’ per timore, un po’ per china devozione, un po’ per insanabile ignoranza, va tracimando ovunque per il mondo. Incurante della scia di morte e distruzione che, inevitabilmente, pur senza accorgersene lascia dietro di sé. 

Ci sono scelte che richiedono serietà, ed una di queste è come procedere al riarmo dell’Europa. Non «se», ma «come». 

Perché ogni persona dabbene è cosciente del fatto che il rafforzamento della difesa europea non è soltanto un’urgente necessità ma anche una straordinaria opportunità. Non una «scelta», ma un vantaggioso dovere. 

È una necessità perché tutti i Paesi europei son stati apertamente minacciati di invasione e distruzione. Tanto dagli Stati Uniti (con l’auspicata conquista del reame britannico del Canada e di quello danese della Groenlandia, col crescente disimpegno NATO, con la politica isolazionista dei dazi) quanto dalla Russia: che mentre avanza pretese territoriali e ammassa truppe ai confini, finanzia partiti, movimenti e giornali apertamente filoputiniani in Europa. Oltre ai consueti spioni e cybersabotatori. 

È un’opportunità perché, dopo i Trattati di Parigi del 1947, qualsiasi forma di riarmo dei Paesi sconfitti (in primo luogo Germania e Italia) è stata da essi espressamente proibita. In particolare, in Italia, oltre al divieto di mantenere le difese costiere e di possedere armi a lungo raggio, vige il limite massimo di 250.000 unità del personale militare: comprensivo di marinai, aviatori e 65.000 carabinieri.

Italia e Germania sarebbero dunque le prime beneficiarie di un processo di riarmo che pone di fatto fine al disarmo imposto dai Trattati di Parigi. Disarmo totale, per i Teutonici. Parziale, per l’Italia.

La Germania non ha certo perso l’occasione: superando la storica ostilità a far debito pubblico ha istantaneamente avviato un ambizioso programma di messa in sicurezza del Paese. 

L’Italia, seconda beneficiaria, preferisce traccheggiare. Un po’ nell’illusione di poter godere di una relativa tranquillità inchinandosi alla mafia affaristica della Casa Bianca, un po’ perché sa di non poter sottrarre risorse ai flussi di spesa con i quali favorisce evasione fiscale, favori e privilegi vari, concessioni minerarie e balneari, assunzioni facili... Irrinunciabili fonti di voti. 

Se Italia e Germania sono (o dovrebbero essere) i primi ad avvantaggiarsi del nuovo scenario geopolitico, il riarmo è anche (o potrebbe essere) una fortissima spinta verso una maggiore integrazione tra nazioni, verso un’Europa capace di farsi finalmente Stato, con conseguenti poteri legislativi, esecutivi e giudiziari. 

La partecipazione alla NATO non sarebbe in discussione, ma ben diverso sarebbe il farne parte come uno Stato Federale Europeo anziché come un frullato di staterelli diversamente armati e ancor più diversamente orientati.

Perché di fatto il necessario quanto auspicato riarmo non consisterebbe affatto – come propagandano i contrari – nel costruire carri armati (che nessun esercito moderno più utilizza) anziché Porsche e Mercedes (felicemente fabbricate in India), ma nel poter fare affidamento su una linea di comando comune che non può prescindere da una politica estera comune. Dunque da un governo comune e da un comune Stato Europeo. Due entità al momento non esistono, in un’Unione Europea che neppure dispone di frontiere certe e di una moneta comune. 

Riarmo non significa (soltanto) produrre più armi, come predicano quelli che Veltroni chiama «europeisti della domenica». Significa produrre più sicurezza. In tempi in cui le guerre non si combattono più con le baionette, ma premendo un pulsante accanto al comodino.

Riedificare le difese costiere è maggior sicurezza, costruire rifugi antiaerei è maggior sicurezza, aver più carabinieri per strada è maggior sicurezza, una rete di comunicazioni nazionale protetta e indipendente è maggior sicurezza, una marina e un’aviazione moderna sono maggior sicurezza.

Gli «europeisti della domenica» han bella e pronta la risposta: va bene la difesa europea, ma siccome uno Stato europeo non c’è, prima facciamo l’Europa e poi costruiamo un esercito europeo. Come dire: prima aspettiamo che che la casa sia finita ed arredata di tutto punto, poi mettiamo la serratura.

Non funziona così. 

Se l’Unione Europea avesse atteso di farsi Stato per avere l’Euro, gli Europei trafficherebbero ancora con lire, franchi e marchi. Se possono invece contare su una valuta ben più forte del dollaro è perché accanto all’Unione Europea è nata l’Eurozona. Della quale non tutti gli Stati dell’Unione fan parte, ma solo chi ci sta: nazioni europee e non europee. 26 Paesi han deciso di adottare l’Euro (27 dal 2026, con l’ingresso della Bulgaria), ma 5 di essi sono extraeuropei. 

Allo stesso modo è nata l’area Schengen, area di libero scambio della quale fan parte nazioni europee (non tutte) ed extraeuropee. 

Non diversamente, per iniziativa di Francia e Regno Unito è nata da poche settimane quella «coalizione dei volenterosi» da cui potrebbe prender vita una vera e propria «Europa della Difesa»: il primo nucleo militarmente e politicamente coordinato di un possibile esercito europeo.

Non potrà che esser quella, ancora una volta, la via: subito e con chi ci sta. In attesa che gli Stati dell’Unione acquisiscano piena coscienza del nuovo percorso imboccato dalla Storia, e che leadership nazionali più istruite e illuminate coerentemente operino affinché l’Europa possa infine farsi a tutti gli effetti Stato. 

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