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Vorrebbe, ma non è

Ciascuno desidera quel che non ha. L’affamato sogna pranzi in dodici portate; il satollo: due giorni di digiuno. Chi abita in un piccolo villaggio va in vacanza nella grande città; chi in una grande città ci vive, cerca la pace nel piccolo villaggio. Il povero si indebita per trascorrere tre giorni da nababbo nel lusso dei grandi alberghi, il nababbo spende il triplo per scalare in solitudine una montagna nutrendosi di conserve e dormendo tra le rocce, o per traversare l’oceano su una barchetta da sette metri.

Non v’è strumento più efficace, per comprendere i lati nascosti di ogni persona, dell’interpretazione dei sogni. Sigmund Freud lo scoprì nel 1899, ma ogni persona accorta e armata di saggezza lo sa sin dai tempi delle caverne.

Come altro interpretare, se non alla luce dei sogni, le artefatte immagini di un Trump che si delizia nel raffigurarsi come un sovrano in pose austere tra corone ed ermellini regali, o accomodato sul soglio pontificio, se non come dichiarata brama di potere? E come tradurre l’insensata raffigurazione di una miamizzata Riviera di Gaza, meta di vacanzieri col bicchiere in mano sdraiati all’ombra di un’aurea statua del medesimo Trump, se non come uno sfrenato desiderio di ricchezza?

— Altro potere? Altra ricchezza? — si domanda, incredulo, chi in poca o nulla misura possiede così l’uno come l’altra. 

— Ancor maggior potere di quel che gli deriva dall’essere a capo della nazione più potente del mondo, la cui moneta è (era?) considerata più stabile dell’oro? Più ricco di quanto non lo sia adesso, dopo aver posato le mani sui rubinetti da cui sgorga il denaro, dalle Borse mondiali al patrimonio pubblico federale, per non parlar delle altrui terre rare?

I sogni non mentono: se Trump ancora brama ricchezza e potere, significa che ricco e potente, in realtà, ancora non lo è. 

È soltanto un morto di fame. E della peggior fame. 

Non fame di cibo – quella che d’incanto si placa ogni qual volta lo stomaco è pieno – ma fame di potere e fame di denaro. Un tipo di fame di cui gli insoddisfatti non si saziano mai. 

Solo le persone di scarso valore, indegne di ammirazione o rispetto, si illudono di poter conquistare denaro e potere col solo uso dell’astuzia e della forza. Imitando in tal modo gli animali, piuttosto che i grandi uomini. 

È la tipica carriera del capo cosca, che nasconde la propria nullità circondandosi di persone ancor più repellenti di lui – ma pronte ad assoggettarsi e incoronarlo come capo – e accumula la sua fragile ricchezza derubando chiunque si lasci derubare: per paura, per vigliaccheria, per incapacità, per debolezza. O – peggio ancora – nell’illusione di poterselo fare amico. 

Del capo mafia Trump presenta più d’un tratto caratteriale. Non ultimo l’aver riempito di stucchi lucenti e d’altri volgari ammennicoli lo Studio Ovale della Casa Bianca. Non diversamente da quei Padrini desiderosi di rappresentare negli oggetti la loro ricchezza e il loro potere, ma incapaci di farlo non soltanto per atavica imbecillità e ignoranza, ma perché ricchi e potenti, in realtà, non lo sono. E mai lo sono stati. 

Perché la ricchezza è come il vino: non basta raccoglier l’uva e pigiarla. Occorre che il mosto invecchi a lungo in botti di legno pregiato: il vino per anni; la ricchezza per secoli. 

Dai soldi appena vendemmiati non potrà mai nascere un vero ricco: tutt’al più un arricchito: asino, supponente, maleducato. Che sta al ricco come uno spumantino lesto ad evaporare sta ad un pregiato vino d’annata. 

Questo perché all’origine di ogni grande ricchezza c’è sempre un grande delitto – sia esso una guerra, un assassinio, un ladrocinio – e occorre purificarne il bottino filtrandolo attraverso una lunga e onorata discendenza, prudente quanto basta per conservare e moltiplicare il maltolto, ma anche così attenta, saggia e generosa da operare in modo da far scordare al mondo gli antichi misfatti da cui quella ricchezza è nata. Che riesca a cancellare il puzzo dei piedi che in passato schiacciarono gli acini, per esaltare invece il gusto e il profumo che al presente sprigiona il calice. 

Il vero ricco lo si riconosce dallo spregio con cui tratta il proprio denaro. Ne possiede fin troppo, per desiderarne dell’altro, e ambisce, all’opposto, a spenderselo. A liberarsene. In opere di beneficenza, se è uomo di senno; ai tavoli da gioco, se è uno scapestrato. 

In ossequio all’enunciato principio che ciascuno brama sopra ogni altra cosa quel che non ha, il vero ricco rincorre, senza saperlo, la miseria. Illudendosi di poter infine trovare, in quella presunta normalità, la propria pace

Al medesimo modo il vero potere non nasce dalla più o meno forzosa sottomissione di un certo numero di individui o di un’intera popolazione, ma dal pubblico riconoscimento del particolare valore o delle straordinarie capacità di una persona. Sia essa un divo del cinema, un campione dello sport, una star musicale, una regina di bellezza, un acrobata circense. O anche, soltanto, un presidente democraticamente eletto. 

Con qualche non trascurabile differenza. 

Le doti di chi è primo nello sport o nello spettacolo sono quotidianamente messe alla prova. È spesso sufficiente una prestazione deludente – talvolta anche una sola parola sbagliata, o un piccolo inciampo – per far scomparire un nome e un volto dalle prime pagine dei giornali e dagli schermi televisivi. 

Il potere del presidente degli Stati Uniti, invece, non nasce da una pubblica acclamazione, ma dal voto dei grandi elettori, a loro volta eletti (con sistemi differenti) da ogni singolo Stato. Anche questa, in una certa misura, è una manifestazione di consenso popolare. La cui durata, tuttavia, non dipende dal maggiore o minore favore mostrato dai sostenitori, ma è costituzionalmente prestabilita in quattro anni. 

Quattro anni in cui quel presidente può a proprio piacimento minacciare il mondo, impoverire l’America, sconvolgere i rapporti tra le nazioni, prendere a parolacce chiunque lo contraddica, tappare la bocca a chi lo critica. Mentre una sola parola sbagliata (o un pandoro!) può esser sufficiente per ricacciare nell’ombra qualsiasi star

Quando John Lennon, intervistato nel 1966 a Londra dall’«Evening Standard», si lasciò sfuggire la considerazione che i Beatles, reduci da un’ultima trionfale tournée negli USA, erano ormai diventati «più popolari di Gesù Cristo», quella frase finì col suscitare uno scandalo planetario, accompagnato da roghi dei loro dischi, spettacoli disertati e generali proteste. Mentre oggi Donald Trump, a conclave aperto e Papa ancora fresco di sepoltura, può impunemente raffigurare se stesso nelle vesti (peraltro malamente imitate) di un altro Capo di Stato – prima ancora che capo della Chiesa Cattolica – senza alcuna immediata conseguenza. Come se – morto Trump e appena rientrato in patria dal doveroso omaggio funebre – Mattarella si fosse fatto ritrarre assiso in poltrona dietro la scrivania dello Studio Ovale. Per giunta ad urne elettorali aperte. E il Quirinale, subito dopo, distribuisse ovunque nel mondo quell’immagine. 

Se Trump sognava – o sogna ancora – di farsi re, bisogna ammettere che c’è andato vicino. 

Se infatti tra i principali vantaggi di una Repubblica rispetto ad una Monarchia vi è quello di poter meglio evitare i danni causati da un eventuale Principe ereditario impazzito per malattia o per nascita, l’attuale presidente degli Stati Uniti ha di fatto ridotto – se non del tutto cancellato – quella non trascurabile differenza. 

Grazie a Trump, oggi sappiamo che anche una Repubblica, non solo una Monarchia, corre il rischio di ritrovarsi a capo un pazzo insoddisfatto e rancoroso che ama circondarsi di buffoni, ignoranti, disadattati, criminali ed altri ancora più matti di lui. Priva di strumenti adeguati per sostituirlo e quindi costretta a tenerselo. 

Con la non trascurabile aggravante che, mentre un re impazzito finisce col rivelarsi un male (temporaneo) solo e soltanto per il proprio regno, un Donald Trump rischia di diventarlo per il mondo intero.  

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